Il centro di ricerca di Huawei a Shanghai
Nel mondo della tecnologia le cose possono cambiare rapidamente. Nel giro di pochi anni marchi che sembravano imbattibili, come Nokia, possono sparire, mentre altri passano dall’essere quasi sconosciuti a imporsi tra i leader globali del settore. È il caso di Huawei: fino a qualche anno fa pochi la conoscevano al di fuori della Cina, oggi è un colosso da poco meno di 100 miliardi di dollari di ricavi.
Merito del successo dei suoi smartphone nel mondo e in questo l’Italia – il secondo mercato dopo quello domestico – è centrale: Huawei controlla oltre il 28% del mercato italiano degli smartphone e da poco ha aperto a Milano il primo negozio monomarca all’estero. L’espansione è forte in tutt’Europa: «In Gran Bretagna siamo cresciuti del 20% nell’ultimo anno e anche la Germania tiene il passo», spiega Walter Ji, presidente della divisione Consumer Huawei per l’Europa Occidentale. Gli ultimi mesi sono stati vivaci, con due nuovi smartphone di alta gamma lanciati in meno di 6 mesi: prima il Mate 10 Pro e ora il Huawei P20 Pro. È puntando in alto che Huawei nell’ultima parte del 2017 si è aggiudicata la terza posizione mondiale nelle vendite di smartphone, dietro Apple e Samsung.
Ma se l’Europa e l’Asia corrono, sull’altra sponda del Pacifico le cose non sono così semplici per Huawei. La guerra dichiarata da Donald Trump alla tecnologia made in China, con il blocco dell’acquisizione di Qualcomm da parte dell’asiatica Broadcom e la minaccia di dazi pesanti, sta danneggiando anche quest’azienda. In particolare, gli Stati Uniti guardano con diffidenza alla crescita nella tecnologia 5G di Huawei, che non nasconde l’ambizione di diventare leader mondiale delle reti ultra-veloci.
Le aziende americane stanno intensificando gli sforzi per ostacolare la sgradita rivalità cinese. A fine dicembre l’operatore di telecomunicazioni At&T ha fatto saltare l’accordo con Huawei per la commercializzazione dei suoi telefoni. Poche settimane fa, anche la catena di negozi tecnologici Best Buy ha annunciato che smetterà di vendere gli smartphone Huawei. Mosse il cui senso è discutibile, considerato che proprio l’americanissimo iPhone della Apple viene assemblato dalla cinese Foxconn che ha sede a Shenzhen, proprio dove Huawei ha il suo quartier generale.
Ji non si esprime sugli effetti che questo "embargo" americano può avere sui piani di crescita di Huawei. L’unica risposta è stata sui numeri: «Anche al di là degli Stati Uniti l’azienda sta performando bene: nel 2017 sono stati spediti 153 milioni di smartphone nel mondo». La base della crescita è la ricerca: «Nei prossimi 10 anni – ha detto Ji – Huawei dedicherà più di 10 miliardi di dollari ogni anno alla Ricerca e Sviluppo». I conti dimostrano che la direzione è giusta: Huawei ha chiuso il 2017 con 604 miliardi di yuan di ricavi (circa 96 miliardi di dollari), il 15,7% in più rispetto al 2016.
Con il nuovo smartphone P20 Pro, appena lanciato, il gigante cinese sfida l’iPhoneX di Apple e il Galaxy S9 di Samsung e punta su un nuovo rinascimento della fotografia – così l’ha definito l’azienda – che passa da un telefono con caratteristiche super professionali: 3 fotocamere da 40 megapixel sviluppate in collaborazione con la leader tedesca delle ottiche fotografiche Leica e con un chip dotato di intelligenza artificiale e una memoria interna che lo fanno assomigliare a un mini super-computer. Huawei, ha ricordato Ji, è un’avanguardia nell’evoluzione tecnologica del settore. A partire proprio dal 5G: «Già nel 2019 potreste vedere il lancio del primo smartphone 5G al mondo».
L’azienda ha investito 800 milioni di dollari per sviluppare la tecnologia mobile di ultima generazione. Anche in Europa c’è chi guarda con diffidenza a Huawei, per la paura che l’azienda non rispetti la normativa sulla tutela dei dati degli utenti. Ji non si mostra preoccupato: «Abbiamo investito per guadagnarci la fiducia dei consumatori. Loro riconoscono il valore dei nostri prodotti e ora li raccomandano ad amici e parenti. Non solo. Da un punto di vista di business già oggi rispettiamo appieno i requisiti richiesti dalla Gdpr (la nuova normativa sui dati personali, ndr)». Di certo, aggiunge il manager, una nuova regolamentazione europea condivisa non può che essere un bene.