Appena fuori dalla stazione di Wolfsburg, c’è una piccola scultura fatta da un italiano. Ritrae un ometto col cappello e la valigia in mano. Sotto c’è scritto: «
Der Auswanderer», «L’emigrante». Migliaia di nostri connazionali, infatti, sono arrivati negli anni Sessanta e Settanta in questa cittadina della Bassa Sassonia con lo stesso obiettivo: trovare un lavoro e fare fortuna. A molti di loro, una volta scesi dal treno, è bastato dare un’occhiata all’imponente struttura che sovrasta la ferrovia: è la più grande fabbrica del mondo, quella della Volkswagen, che copre una superficie di 6,5 chilometri quadrati e dà lavoro a 50mila operai. Di questi, 1.500 sono italiani e anche a essi si deve il segreto della locomotiva Germania, il primo Paese europeo a riprendersi dopo la crisi e a tornare a correre, come e più di prima.
Gli impegni presi dalla MerkelIl cuore della rinascita teutonica sta tutto in due parole: pace sociale. Per capire di cosa si tratti, bisogna incontrare Franco Garippo e Gerardo Scarpino, due tra i sei italiani eletti nel Consiglio di fabbrica di Wolfsburg. Sono qui da più di quarant’anni e la loro mente torna subito al 1993, al loro primo grande negoziato. Allora Volkswagen intendeva dismettere 30mila unità lavorative. «Immagina cosa sarebbe successo, in una città in cui un abitante su due lavora alla catena di montaggio?» raccontano, interrompendo una giornata piena come al solito di incontri, trattative e telefonate. Serviva una mediazione: tutti i dipendenti del gruppo automobilistico accettarono allora la riduzione del 20% delle ore lavorate in cambio della salvaguardia del posto. La busta paga diventò più leggera (anche se successivamente i
bonus compensarono le perdite) e i livelli occupazionali non furono toccati. Una vittoria delle tute blu, guidate nella commissione interna proprio dai due italiani. Quell’episodio serve a capire cosa sta succedendo oggi. La domanda infatti è d’obbligo: come è stato possibile dopo quella vertenza ottenere stipendi doppi rispetto a quelli italiani e insieme raggiungere standard di produttività cinesi? Il tutto, senza bisogno di indire uno sciopero negli ultimi trent’anni? «In questa fabbrica viene premiata la voglia di specializzazione e di riqualificazione» osserva Scarpino. Negli anni Novanta vinse il principio «lavorare meno, lavorare tutti», adesso il motto, secondo Garippo, è un altro: «È il risultato quello che conta». Volkswagen vuole produrre un milione di auto all’anno e diventare il primo leader mondiale? «Benissimo, presenti le proprie proposte e noi le ascolteremo». «Discutiamo moltissimo con i manager – sottolinea Scarpino –. I conflitti non mancano. Ma c’è anche rispetto reciproco e a volte i nostri suggerimenti sono serviti a più di un dirigente perché si cambiasse strategia». Diciott’anni dopo le garanzie sono ancora più forti: illicenziabilità per tutti fino al 2014 e la certezza ribadita anche dal cancelliere Angela Merkel in una recente assemblea pubblica, che Wolfsburg e gli altri impianti tedeschi resteranno il cuore e il motore della crescita mondiale del gruppo. «Dopo la crisi del 2008, siamo ripartiti più forti di prima – continua Garippo –. Ci hanno proposto 44 sabati di lavoro straordinario tra il 2009 e il 2010 e noi abbiamo accettato. Abbiamo richieste di mercato altissime e questo vuol dire che il nostro modello funziona».
Una lezione per il nostro PaeseQui si torna all’Italia, all’accordo celebrato questa settimana da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil sul contratto aziendale che però non soddisfa né la Fiat né la Fiom. «Chi ha paura del modello tedesco?» si è chiesto nei giorni scorsi Pietro Ichino. Vista dagli operai italo-tedeschi di Wolfsburg, la questione è semplice. «L’obiettivo deve essere sempre quello di cercare un’intesa il più possibile condivisa da tutte le sigle». Un problema, quest’ultimo, che in Germania non esiste poiché il sindacato è uno, la Ig Metall, e rappresenta oltre il 90% dei lavoratori. Ciò detto, la Ig Metall contratta per i suoi iscritti, poi è la commissione interna, prevista per legge, che vigila sul rispetto dei diritti. In altri termini: il sindacato segue i negoziati sulle grandi questioni del lavoro, la rappresentanza interna si occupa di ottenere condizioni lavorative e retributive vantaggiose per gli operai. Compiti distinti ma chiari. Da parte sua, Volkswagen da tempo ha fatto la scelta che vorrebbe fare Fiat: non ha aderito alla Confindustria nazionale e ha preferito negoziare da sola. Con dei vincoli, però, visto che la Regione ha una quota del 20% nell’azionariato che di fatto impedisce piani di delocalizzazione o ristrutturazioni radicali del personale. E in tutti gli organi di rappresentanza, compreso il comitato di sorveglianza che stabilisce le linee strategiche del gruppo, il peso degli operai è rilevante. È il modello della co-decisione, in cui azionisti, dirigenti e lavoratori fanno una sintesi delle priorità e scelgono quale direzione intraprendere. «Il nostro ruolo è anche quello di riequilibrare le posizioni. Non si prendono decisioni a maggioranza, ma solo decisioni di buon senso».