Per decenni è sembrato che nel mondo della finanza non potesse esserci spazio per l’etica. Il settore finanziario era visto come un’attività il cui unico obiettivo erano gli utili da mostrare agli investitori alla fine di ogni trimestre. In questo contesto gli operatori dovevano fare solo una cosa: guadagnare il più possibile. Erano gli anni dei lupi di Wall Street e dei trader senza pietà, i tempi in cui a dominare la finanza internazionale erano gruppi che si disinteressavano di qualsiasi cosa non servisse a raggiungere un profitto immediato e abbondante. Era chiaro che un sistema del genere, in cui la finanza si comportava come fosse autosufficiente e separata dalla cosiddetta “economia reale”, non poteva durare per sempre. È arrivata la grande crisi e patrimoni miliardari sono evaporati ancora più rapidamente di come si erano formati. A quel punto è diventata ancora più evidente una realtà che in molti avevano già evidenziato da tempo: se la finanza insegue solo i soldi, non può portare benessere duraturo. Una finanza del genere non serve a nessuno se non ai pochissimi che ci guadagnano: è essenzialmente insostenibile.Pochi anni prima dello scoppio della crisi, Kofi Annan, l’allora segretario delle Nazioni Unite, aveva convocato a New York i manager di cinquanta dei più grandi gruppi finanziari globali per ragionare assieme sul contributo che avrebbero potuto dare per centrare gli obiettivi del Global Compact, l’iniziativa con cui l’Onu e le aziende collaborano sui principi dei diritti umani e dei lavoratori, la tutela dell’ambiente e il contrasto alla corruzione.
Dall’incontro tra finanza e rappresentanti delle nazioni è nato “Who Cares Wins - Connecting Financial Markets to a Changing World”, il documento che si può considerare la base di quella che oggi chiamiamo finanza sostenibile.«Le istituzioni che appoggiano questo report sono convinte che in un mondo più globalizzato, interconnesso e competitivo il modo in cui sono gestite le questioni ambientali, sociali e di governo societario fa parte della qualità complessiva di gestione delle società necessaria per competere con successo» si legge nello studio. Una formula diplomatica per dire qualcosa che allora era davvero nuovo: i gruppi finanziari riconoscono che anche il rispetto di criteri Esg – cioè che riguardano l’ambiente (enviroment), la società e la governance – è necessario al successo della loro attività.La finanza sostenibile si può dividere essenzialmente in due tipologie. Da un lato quella che procede per esclusione, cioè elimina dagli investimenti ciò che è considerato “cattivo” – tecnicamente è il divestment, cioè disinvestimento – per l’ambiente o la società. Sono esempi di questo approccio le strategie di sostenibilità che evitano di investire sul settore degli idrocarburi, per il suo elevato impatto ambientale, sulle aziende che producono mine anti-uomo o sui titoli di Stato di nazioni che non rispettano i diritti umani. È la forma di finanza sostenibile più diffusa. Dall’altro lato c’è l’approccio inclusivo, cioè la finanza che agisce attivamente per obiettivi di sostenibilità. È il caso ad esempio dei green bond, obbligazioni per realizzare progetti positivi per l’ambiente, o della scelta di investire su aziende che hanno obiettivi di interesse mondiale, come chi fa ricerca per la cura del cancro.La finanza sostenibile poteva restare un principio teorico, una bella maschera che i finanzieri potevano indossare per darsi un’aria rassicurante mentre continuavano a muovere ogni giorno miliardi di dollari senza preoccuparsi delle sorti del mondo. Invece, anche grazie alla crisi, la finanza sostenibile si è fatta spazio anno dopo anno. Fino al punto che il vecchio modo di fare finanza sta soccombendo sotto questa marea di investimenti etici. Secondo l’ultimo rapporto biennale della Global Sustainable Investment Alliance, la rete delle sei principali associazioni internazionali di investimenti sostenibili, le masse amministrate secondo criteri sostenibili nel 2016 hanno raggiunto i 23mila miliardi di dollari su 71.400 asset totali delle società di investimento. È una crescita del 25% in due anni e del 78% in quattro anni.C’è spazio per un’ulteriore espansione. Tutti i principali protagonisti della finanza mondiale negli ultimi anni hanno presentato massicce strategie di investimenti sostenibili.
«L’investimento sostenibile sarà una componente fondamentale per il modo in cui tutti investiranno in futuro» ha spiegato a ottobre, in un’intervista al Financial Times, Larry Fink, ceo di BlackRock, cioè il più grande società al mondo nell’asset management del risparmio, con 6.300 miliardi di dollari in gestione. «Un giorno elimineremo l’etichetta “sostenibile” perché questa caratteristica sarà la regola di tutti i grandi portafogli» ha aggiunto il responsabile della divisione Etf del fondo americano. Nelle previsioni di BlackRock gli investimenti su Etf che adottano criteri Esg cresceranno in dieci anni dagli attuali 25 a oltre 400 miliardi di dollari. Insomma, anche la finanza sostenibile sa non avere pietà: si allargherà fino a rendere di nicchia la cosiddetta finanza tradizionale.Anche perché, ha sottolineato Fink, secondo i calcoli a disposizione di BlackRock adottare un approccio sostenibile non rende meno redditizi gli investimenti. Su questo aspetto non c’è ancora una ampia base di ricerche, ma diversi studi pubblicati in questi anni – come quelli di Standard & Poor’s e Morgan Stanley – hanno confermato che i rendimenti degli investimenti etici sono anche maggiori a quelli di chi adotta approcci tradizionali. Investire pensando anche al bene comune non significa guadagnare meno. Non è un dettaglio da poco.