Il nazionalismo è la risposta viscerale, sbagliata e controproducente a una globalizzazione culturale prima che economica dove la persona umana è in fondo alla scala dei valori, le diseguaglianze sono enormi e i sistemi fiscali non riescono a redistribuire le risorse. La Brexit è il risultato paradossale dell’incapacità di certe
élite di capire i problemi delle classi medie e basse dei Paesi ricchi che hanno visto peggiorare le loro condizioni di lavoro negli ultimi decenni per via degli effetti perversi di una globalizzazione mal gestita. Il ragionamento di tanti elettori britannici appare grossolano ed elementare: ci sono troppi stranieri, la torta è fissa e gli stranieri (europei e no) ci tolgono risorse, la colpevole è l’Europa. L’esito del voto di protesta, soprattutto nel caso britannico, non produce una soluzione ragionevole. Il Regno Unito non ha l’euro e ha sospeso Schengen, dunque che cosa cambia? Con la Brexit perde ora il vantaggio di fungere da
hub (letteralmente: fulcro) finanziario per l’Europa comunitaria e quello garantito dagli accordi commerciali con i Paesi della Ue, e questo potrà danneggiare la sua crescita e la sostenibilità dei suoi dati di bilancio (che è fortemente in deficit). Londra dovrà rinegoziare tutto daccapo e non è detto (anzi è molto difficile) che i vecchi partner "abbandonati" siano disposti a procedere in modo amichevole in questa direzione. Un banco di prova importante anche per altre ipotesi di uscita dall’Unione sarà verificare se la svalutazione della sterlina, unico effetto immediato realizzato e perfettamente prevedibile
ex ante della Brexit, produrrà maggiori effetti positivi (rendendo più competitive le esportazioni) o maggiori effetti negativi (aumentando il costo delle importazioni). Le filiere produttive, infatti, sono oggi complesse e frammentate ed è molto difficile stabilire prima quale dei due effetti prevarrà. Intanto il vaso di Pandora si è aperto e il Regno Unito, ora Regno Diviso, rischia la disgregazione perché Irlanda del Nord e Scozia non sembrano condividere questa rottura. Se la Gran Bretagna subisce in un passaggio così delicato e dirompente volatilità e incertezza, figuriamoci che cosa potrebbe capitare alla nostra Italia che è ancora percepita come un «anello debole» d’Europa. Le pesanti dinamiche di Borsa, e soprattutto dei titoli bancari, di ieri sono un antipasto di quello che potrebbe succedere in caso di uscita dell’Italia dall’euro. E sappiamo già che in un caso del genere l’ombrello della Bce di Mario Draghi sullo spread e sui titoli di Stato non funzionerebbe con la stessa efficacia. Ciò che Brexit sancisce in modo chiaro e definito è un duplice fallimento di strategie e di capacità di comunicazione.
In primis c’è l’incapacità della Ue di affrontare il disagio popolare di questa fase della globalizzazione e di mettere la dignità della persona e del lavoro al centro della scena. Scena occupata da "idoli" come il libero mercato, il surplus del consumatore o la massimizzazione del valore per l’azionista la cui preminenza spiazza di fatto la promozione della dignità dell’uomo e della donna e della loro realizzazione nel lavoro. Oltre a questo, emerge con ancora più chiarezza l’incapacità assoluta di comunicare in modo popolare ed empatico i tanti benefici che le risorse comunitarie producono nei territori. Non esiste un’Europa che parla con i cittadini, ma soltanto la percezione di funzionari che da lontano, a Bruxelles, decidono in modo poco lungimirante i nostri destini. Nella vita dei persone e dei popoli, però, ogni problema può essere un’opportunità. Brexit può diventarlo, anche sul piano dell’economia e del lavoro se produrrà due risultati importanti nell’Unione Europea. Il primo è l’adozione di una chiara strategia di condivisione del rischio e delle risorse tra deboli e forti, così come avviene strutturalmente in uno Stato federale. Una strategia che non risulti priva di un sistema d’incentivi che stimoli al progresso nella gestione economica, ma che sia molto più generosa dell’attuale. Il secondo è il varo di politiche fiscali che vadano alla radice del problema della globalizzazione. Per trasformarla rapidamente in una corsa verso l’alto dei diritti e della dignità della persona e del lavoro sono necessari quei meccanismi definiti di
social consumption tax (cioè di imposizione sul consumo sociale) attraverso i quali i prodotti che arrivano sugli scaffali di negozi e supermercati vengono premiati (o sanzionati fiscalmente) quando sono provenienti da filiere ad alta (o bassa) dignità del lavoro. Muovendo in parallelo rispetto a quanto accade nel settore della sostenibilità ambientale, abbiamo bisogno dell’introduzione della "classe energetica A" stavolta non per premiare la qualità ecologica di edifici o elettrodomestici, ma la dignità del lavoro incorporata nei prodotti. Solo mettendo la dignità del lavoro e della persona al centro della globalizzazione potremo combattere il drammatico "effetto serra sociale" che surriscalda e inquina la politica del continente. Le diseguaglianze come l’inquinamento danneggiano tutti, producono concorrenza verso il basso dei salari, precarietà, migrazioni incontrollate degli ultimi verso i Paesi del benessere, concorrenza tra gli ultimi per piccole fette di torta. È davvero arrivato il momento di capire che non possiamo più permettercele e mettere in campo gli strumenti noti e disponibili per contrastarle.