giovedì 7 novembre 2024
Un'indagine dell'Inapp svela come oltre il 50% degli occupati italiani utilizza gli strumenti digitali più avanzati, guadagnando tempo e capacità. Ma c'è anche chi subisce effetti psicofisici negativi
Una lavoratrice stressata davanti al suo Pc

Una lavoratrice stressata davanti al suo Pc - cc-pexels

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La tecnologia è davvero in grado di migliorare la qualità di ciò che facciamo? Il 56% dei lavoratori italiani si avvale ogni giorno di quella più complessa, ma non sempre gli effetti sono positivi in termini di ritmi e stress. E più questa si evolve, più siamo costretti a fare i conti con la questione. A fornire il dato è l’ultimo studio realizzato da Inapp, l’istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, che ha indagato la diffusione degli strumenti digitali avanzati nel tessuto occupazionale del nostro Paese e il loro impatto generale. Su un campione di 15mila lavoratori rappresentativo di tutti i settori economici, la maggioranza ha dichiarato di farne uso, sotto forma di macchinari, sistemi automatizzati, software per la condivisione delle informazioni, cloud computing, Big Data analytics, sistemi informatici di simulazione dei processi produttivi, robotica collaborativa e stampanti 3D.

Tali e tanti sono gli impieghi, da permettere di suddividere i lavoratori in quattro diverse categorie, in base al tipo di tecnologia utilizzata: i cosiddetti hard digital”, in cui rientra il 24% del campione, cioè coloro che utilizzano quelle hardware diffuse in tutti i sistemi produttivi più moderni. il 17% sono invece “cloud digital”, ovvero ricorrono al cloud computing e interagiscono con macchine automatizzate, e il 7% “soft digital” occupati in attività per le quali è necessario fare ricorso anche ai Big data analytics. La stessa percentuale rappresenta gli “integrati”, che usufruiscono a 360 gradi di tecnologie software associandole ai classici dispositivi hardware. Secondo l’analisi, pubblicata sul nuovo numero della rivista scientifica dell’istituto, l’applicazione di queste tecnologie porta alla crescita delle competenze dei lavoratori e al miglioramento delle loro condizioni di lavoro. Soprattutto per i soft e cloud digital, che dichiarano al 40% di essere riusciti a «migliorare la propria situazione economica, le prospettive di sviluppo e carriera e i livelli di autonomia» (tra i lavoratori non digitali, la soddisfazione su questi aspetti scende al 20%). E più è alto il grado di specializzazione tecnologica, maggiore è anche la qualità del lavoro. Non tutti però la pensano così. Quasi il 70% degli occupati nella categoria “hard digitalha dichiarato il contrario: lavorare con i dispositivi hardware, oltre a non averli resi in media più ricchi, indipendenti e ambiziosi, si è rivelato un compito gravoso dal punto di vista fisico e mentale.

Queste e altre criticità sono emerse anche dall’indagine europea EU-OSHA OSH Pulse condotta dall’Agenzia della Commissione Europa sulla Salute e Sicurezza sul lavoro, di cui la rivista cita i risultati. Tra i 27 dell’Unione, le tecnologie risultano infatti diffuse quanto e più che in Italia: il 73% degli occupati utilizza regolarmente quelle di base, mentre una minoranza le “indossa” come orologi, occhiali e bracciali smart. Con quali scopi? Dipende. Ai datori di lavoro, per esempio, possono tornare utili per supervisionare o monitorare le prestazioni del personale, assegnare compiti, orari di lavoro o turni. Il che, per i dipendenti, si traduce spesso in ritmi di lavoro più serrati, più sorveglianza e, talvolta, persino in una riduzione dell’autonomia lavorativa. «I risultati confermano, in generale, una relazione positiva tra gli investimenti in tecnologie digitali e le condizioni di lavoro se accompagnati da quelli sulle competenze dei lavoratori, ma evidenziano anche un aumento dei livelli di controllo delle prestazioni dei lavoratori con disagi di natura psicologica, sociale e salariale. Questi fenomeni devono essere attentamente monitorati anche per l’atteso sviluppo delle applicazioni dell’intelligenza artificiale» ha commentato il presidente dell’Inapp Natale Forlani.

Confcommercio Professioni rivela come proprio l’avvento dell’IA stia “spaccando” il settore del lavoro autonomo. Oltre il 60% dei professionisti associati utilizza chatbot o assistenti virtuali e la metà ne riconosce i benefici per efficienza e produttività, ma il 27% (di cui 1 su 5 nel settore della comunicazione) teme che i software generativi possano metterne a rischio l’occupazione. «Se i dati sull’utilizzo sono positivi- dichiara la presidente dell’ente Anna Maria Fioroni-ci preoccupa che solo il 16% degli autonomi abbia ricevuto una formazione specifica».



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