Le donne possono dare un contributo essenziale alla lotta contro la povertà e al raggiungimento degli obiettivi della sicurezza alimentare e di un’agricoltura sostenibile. Ed è irrinunciabile anche il loro impegno per assicurare la salute e il benessere di tutti. Ma il ruolo delle donne, e la loro piena dignità, in alcune parti del mondo non sono ancora riconosciuti. Anche per questo è stato fissato l’obiettivo n. 5 dell’Agenda 2030 approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che consiste nel «raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze». Ma non è un obiettivo a se stante perché il suo esito dipende innanzitutto dalle relazioni umane, dalle risorse disponibili e dalla crescita demografica. In ogni caso il ruolo delle donne, in politica e negli altri ambiti della società, è determinante, su tutti i versanti: l’educazione alle scelte alimentari, la gestione e la riduzione dei rifiuti domestici, il lavoro e l’organizzazione delle risorse economiche, l’utilizzo delle moderne tecnologie.
Quello previsto dall’Onu, quindi, è un “goal” strettamente collegato a tutti gli altri. Ma una delle condizioni affinché venga rag- giunto è innanzitutto l’uso di un linguaggio adeguato, che non riferisca azioni e comportamenti solo al maschile. Perciò è importante anche abbattere i forti stereotipi sessisti, qualche volta presenti nei media, specialmente nei Paesi meno sviluppati. Per inquadrare la condizione femminile nel mondo oggi, ecco dati forniti dall’Onu: nel 2015 il 35% delle donne ha subito violenza fisica o sessuale e i due terzi delle vittime degli omicidi in ambito familiare sono donne; circa i due terzi dei Paesi in via di sviluppo hanno raggiunto la parità di genere nell’istruzione primaria; nel 1990, in Asia meridionale, 74 femmine erano iscritte alla scuola primaria ogni 100 bambini, nel 2012 i tassi d’iscrizione erano gli stessi per le ragazze e per i ragazzi; in Nordafrica le donne detengono meno di un quinto dei posti di lavoro retribuiti in settori non agricoli, la proporzione di donne che occupano posti di lavoro retribuiti al di fuori del settore primario è aumentata dal 35 % del 1990 al 41% del 2015; in 46 Paesi, le donne detengono oltre il 30% di seggi nei parlamenti nazionali.
Kira sorride quando non trova le parole. E accade spesso. Non è facile tradurre i pensieri in una lingua estranea. Dello spagnolo conosce i termini base. Quelli indispensabili per fare la domestica. In nero. Senza contributi e, dunque, nel futuro, senza pensione. «Ora mantengo i miei nipoti, spero che loro aiuteranno me da vecchia», dice. Non ha altra scelta: con 200 euro di stipendio – meno di un terzo del salario minimo – e una decina di parenti da sfamare non riesce a mettere qualcosa da parte. A preoccupare Kira, però, è soprattutto l’impossibilità di accedere ai servizi sanitari e di andare a scuola. «Volevo frequentare un corso serale ma non mi fanno iscrivere perché non ho un contratto regolare. Da questa parte vogliono solo il mio lavoro. Per il resto non conto», racconta la donna. Una delle oltre 14mila a cavallo fra due mondi. Emarginate in entrambi. Kira abita a Castillejos, nel nord del Marocco. La regione, chiamata Yerbala, è una delle più depresse del Paese. Metà delle case, solo per fare un esempio, non ha acqua corrente. La povertà – che supera il 15% – si accanisce in particolare sulle donne: oltre il 60% è analfabeta, in campagna la percentuale sale al 90. Meno del 14% della manodopera femminile riesce, dunque, a trovare un lavoro con cui mantenere se stesse e, spesso, le proprie famiglie. Naturale che tante cerchino possibilità di sopravvivenza nei 19 kmq di Spagna incastonati in territorio marocchino: Ceuta. La città, appartenente politicamente a Madrid, è una fortezza blindata. A cui, però, i marocchini residenti nell’area limitrofa di Tetuán hanno accesso legale senza visto. In 25mila attraversano la frontiera, ogni giorno.
Un esercito di manodopera a basso costo in gran parte – il 57% – femminile. Il cui lavoro – molto spesso illegale – produce 420 milioni all’anno. Nel settore domestico – che occupa tra le 5 e le 7mila marocchine –, otto su dieci sono senza contratto. Come Kira. La mattina si sveglia alle 4, anche se Castillejos dista meno di un’ora d’auto da Ceuta. Ma lei, come le altre transfrontaliere, l’auto non ce l’ha. Così è costretta a un’assurda gimkana: taxi collettivo con altre sei persone, al costo di 1,5 euro a testa a tratta. Poi, lunga fila al confine e bus fino alla ca- sa in cui è impiegata. Il tragitto dura tra le 2,30 e le tre ore. «Non è questo a pesarmi di più. Per anni ho vissuto come in una bolla: senza saper leggere, né scrivere, né parlare spagnolo, non riuscivo nemmeno a chiedere un’indicazione. Per questo volevo andare a scuola. Ma non potevo». Poi, Kira si è imbattuta nell’associazione Digmun che, da undici anni, aiuta le “marocchine invisibili” di Ceuta a cui è preclusa l’iscrizione nelle scuole pubbliche. «Venivano nel mio istituto, una dopo l’altra, supplicando di poter partecipare alle lezioni serali. Volevano solo poter comunicare. Il sistema, però, non lo permetteva. Così, abbiamo cominciato con l’associazione. Siamo partiti con un gruppo di 15. Ora frequentano i nostri corsi in 150 all’anno.
Il primo passo è, dunque, l’alfabetizzazione. Man mano che imparano e riacquistano stima in se stesse, si amplia l’offerta, con laboratori di diritti umani, uguaglianza, contro la violenza», racconta la presidente, Maribel Lorente, una coraggiosa insegnante che ha lavorato per anni in Marocco. Nel Paese, la Costituzione garantisce pari diritti a uomini e donne. Leggi e codici di comportamento, però, faticano ad adeguarsi. Le “forzate della frontiera” – le migranti quotidiane perennemente emarginate –, paradossalmente, possono diventare protagoniste del cambiamento quando prendono coscienza della propria dignità. «Ho iniziato a fare su e giù da Tetuán a Ceuta quando avevo 15 anni. Tutti mi trattavano come se non valessi niente. E così lo credevo anche io. Quando mi sono presentata a Digmun mi hanno salutato cordialmente e fatto accomodare. Per la prima volta mi sono sentita trattata come una persona. Ora so di avere dei diritti. A lavoro e in casa», racconta Fatima, ex porteadora. Un lavoro anomalo, prodotto delle incongruenze della frontiera. Ceuta, porto franco e meta delle navi mercantili di tutta Europa, non ha la dogana commerciale. Solo le persone, non le merci possono passare. Dato il prezzo allettante di queste ultime, i commercianti marocchini non ci rinunciano: “assoldano” donne – perché più malleabili – che caricano enormi fagotti sulle spalle come se fossero un tutt’uno con il loro corpo e li portano dalla città spagnola a Tetuán.
La violazione della legge è evidente: le polizie di entrambi i Paesi, però, chiudono gli occhi. In ballo c’è un giro d’affari da mezzo miliardo di euro l’anno. Alle porteadoras vanno tra gli 8 e i 20 euro al giorno (meno i tre euro di taxi collettivo per arrivare), a seconda del peso, che varia tra i 40 e i 90 kg. «Non è solo la povertà a renderci di “serie b”. È la mancanza di cultura, di consapevolezza», afferma Mahssine Azguet che da due anni gestisce a Tetuán un centro in cui le donne possono lasciare i figli prima di andare a lavorare oltre-frontiera. La struttura, però, è anche un luogo di informazione e formazione sui diritti sindacali, umani, familiari. «Non è facile, ma pian piano ho capito che mi sfruttavano. Ho smesso di fare la porteadora e ho cominciato come domestica. Ora ho perfino un contratto», conclude Miriam. Il cambiamento procede lento, a volte malfermo. Ma non s’arresta. Come il passo delle donne della frontiera.
Sono 14mila le frontaliere che ogni giorno si recano dalla regione di Yerbala, nel nord del Marocco.
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