Otto anni fa all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica di Milano l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti aveva proposto una bella metafora della situazione in cui si trova chi governa negli anni della crisi: «È come vivere in un
videogame, compare un mostro, lo combatti, lo vinci, ti rilassi e subito spunta un altro mostro più forte del primo». Allora i mostri erano i
subprime, poi sarebbero comparsi i debiti degli Stati, il rischio di rottura della zona euro, la crisi delle economie emergenti e quella delle materie prime. Oggi, a nove anni dai primi scricchiolii estivi di Borsa che presagivano la tempesta in arrivo, abbiamo davanti altri mostri economici, forse meno spaventosi, ma comunque sempre difficili da sconfiggere.
Per noi italiani ed europei quei mostri si chiamano deflazione, tassi a zero e crisi bancaria. Sembra però che siamo entrati in una fase di stanca di questo
videogame, un periodo in cui dopo avere combattuto a lungo contro questi nemici senza avere però vinto nessuna battaglia importante chi ha le armi per contrastarli ha impiegato già quasi tutto il suo arsenale e a questo punto non gli rimane molto da fare. Se non aspettare che nell’evoluzione naturale della situazione compaia qualche possibilità nuova.
La battaglia contro la deflazione e la bassa inflazione è quella che al momento ha dato i risultati più magri. È vero quello che ha ripetuto più volte Mario Draghi – cioè che senza la strategia monetaria ultra aggressiva della Banca centrale europea probabilmente l’indice dei prezzi sarebbe ancora più depresso –, ma nonostante i poderosi sforzi monetari della nostra banca centrale continuiamo a ragionare attorno a quota zero. A luglio, secondo la prima stima di Eurostat, l’inflazione nella zona euro era allo 0,2%. Quasi nulla. Anche perché quei due soli punti decimali sono il risultato di un aumento del denaro a disposizione nella zona euro – la massa monetaria M3, che include contanti, titoli e depositi bancari – di ben il 5%, cioè 25 volte superiore al tasso di crescita dei prezzi. Così a Francoforte guardano con un po’ di invidia i colleghi della Federal Reserve, la banca centrale americana che è riuscita a riportare l’inflazione all’1%, e con un po’ di paura quelli della Banca del Giappone, che con la deflazione lottano da più di vent’anni e nonostante le incredibili misure degli ultimi tempi (tra le quali triplicare la moneta a disposizione e stampare denaro per comprare di tutto, comprese azioni di aziende) si ritrovano con una variazione dei prezzi ancora negativa, -0,4% a giugno. Lo scenario che l’Europa ha davanti, per quanto riguarda l’inflazione, fortunatamente dovrebbe essere più simile a quello degli Stati Uniti che a quello del Giappone. La Bce prevede per il 2017 una variazione dell’indice dei prezzi dell’1,3%, decisamente più vicina al 2% indicato dal suo mandato. A quel punto, però, la Banca centrale europea si troverà più o meno nella situazione non invidiabile che sta vivendo in questi mesi la Federal Reserve. Perché quando la moneta pompata nel sistema è riuscita a produrre un aumento dei prezzi a livelli normali – con effetti positivi sulla crescita economica – per la banca centrale che gestisce il sistema è il momento di ridurre la spinta monetaria.
Cioè tagliare le misure di stimolo quantitativo (acquisti di bond e simili) e quindi alzare i tassi. È la famosa 'exit strategy' che, nei piani della Bce, non dovrebbe iniziare prima del marzo 2017, prossima 'scadenza' fissata per il
Quantitative easing avviato nel gennaio 2015 (doveva andare avanti 'almeno' fino a settembre 2016, ma è stato prolungato fino al prossimo marzo 'o oltre, se sarà necessario'). Abbandonare gli stimoli, però, è complicatissimo. Chiedere, appunto, a Janet Yellen: il numero uno della Fed ha chiuso lo scorso anno con il QE e aveva previsto di alzare i tassi almeno tre volte tra fine 2015 e inizio 2016. Le è riuscito solo il primo rialzo (dallo 0-0,25% allo 0,25-0,5%) a dicembre del 2015, dopodiché nulla: accampando ogni volta motivazioni diverse il direttivo della banca centrale americana ha continuato a temporeggiare sul secondo rialzo, dimostrando di temere seriamente che senza il 'doping' dei tassi a zero la ripresa potrebbe sciogliersi nel giro di qualche mese. Certo, per tutte le banche centrali percorrere le strategie d’uscita sarebbe molto più semplice se l’economia reale regalasse più soddisfazioni. Servirebbe, cioè, una ripresa vera e robusta, e questa sembra mancare sicuramente all’Europa e probabilmente anche agli Stati Uniti. In questo contesto il Vecchio Continente fa più fatica anche a gestire
l’emergenza banche, un problema che in altri momenti avrebbe trovato soluzioni senza troppi problemi. Il Monte dei Paschi di Siena nello scorso decennio non avrebbe faticato a trovare investitori interessati a partecipare a un aumento di capitale sostanzioso, servono 5 miliardi di euro, per diventare soci di una delle principali banche italiane. Stavolta, invece, di potenziali soci non se ne sono visti, nemmeno candidati da quelle nuove potenze economiche – come la Cina, gli Emirati o la Russia – solitamente così poco schizzinose con gli investimenti in Europa. Il problema, confermano gli analisti, è che chi compra una banca italiana o europea oggi non sa cosa compra in termini di valore reale degli attivi di bilancio, a partire dai crediti, e non sa come recuperare redditività. Le diverse soluzioni ideate dall’Italia per gestire il problema dei
crediti deteriorati, come la garanzie Gacs per le sofferenze, hanno avuto inevitabilmente un impatto limitato. La stessa scarsa efficacia rischia di averla il fondo Atlante 2, che vorrebbe avere un ruolo 'sussidiario' allo Stato e dimostrare come i cattivi crediti nei bilanci delle banche italiane valgano di più di quanto il mercato oggi sia disposto a pagarli. Una sfida durissima. Ma lo Stato non ha trovato, né potuto cercare troppo, soluzioni alternative. Anche davanti al 'mostro' bancario - fatto di troppe sofferenze nei bilanci di istituti importanti come Mps o Uni-Credit - restiamo dunque in attesa che gli eventi facciano il loro corso, sperando che un’accelerazione dell’economia ammorbidisca l’avversario e che lungo il cammino non si verifichino incidenti tali da dovere intervenire con un piano di emergenza. Nel videogioco della crisi a un certo punto dovrà pur esserci il 'game over'. L’importante è arrivarci perché il gioco è completato, non perché hanno vinto i mostri.