domenica 22 gennaio 2017
Il decimo obiettivo (su 17) dell'agenzia Onu per lo sviluppo è ridurre le disuguaglianze. Due esempi sul campo in Colombia e in Guatemala, dove c'è una distanza enorme tra le classi sociali.
Contro la disuguaglianza, funziona la cooperazione
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È di questi giorni l’inquietante rapporto Oxfam che dice che otto super miliardari vantano la stessa ricchezza (426 miliardi di dollari) di metà della popolazione più povera del pianeta, vale a dire 3,6 miliardi di persone. Nel mondo sette persone su dieci vivono in Paesi dove la disuguaglianza è aumentata negli ultimi trent’anni alla potenza ennesima. Tra il 1988 e il 2011, per esempio, il reddito medio del 10% più povero è aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l’anno, mentre quello dell’1% più ricco di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto. Il reddito è ovviamente la più emblematica misura anche per altre forme di disuguaglianza. Oxfam ha calcolato per esempio che, con i trend attuali, serviranno 170 anni prima che le donne possano raggiungere lo stesso livello retributivo degli uomini. Altri esempi? Basterebbe recuperare l’elusione fiscale delle grandi multinazionali per mandare a scuola 124 milioni di bambini attualmente esclusi da questo fondamentale diritto. I servizi pubblici essenziali come sanità e istruzione subiscono tagli, ma a multinazionali e super ricchi è permesso di eludere impunemente il fisco. La voce del 99% della popolazione rimane inascoltata perché i governi mostrano di non essere in grado di combattere l’estrema disuguaglianza, continuando a fare gli interessi dell’1% più ricco ovvero le grandi corporation e le élites più prospere. Per questo Oxfam ha lanciato una petizione ai governi perché diano vita a una diversa economia. Otto i punti richiesti: politiche per arginare la concentrazione di ricchezza; stop alla concorrenza fiscale al ribasso; sostegno a modelli di business non orientati solo a massimizzare il profitto; incoraggiamento di innovazioni tecnologiche a vantaggio di tutti; una transizione verso l’uso di energie rinnovabili; la promozione dello sviluppo in base anche a indicatori relativi al benessere dei cittadini e non più al superato totem del Pil. Obiettivi molto mirati che vanno a declinare quello che, tra i goal dell’Agenda 2030, l’Onu ha identificato come l’obiettivo numero 10: ridurre le disuguaglianze. L’obiettivo forse più ambizioso e impervio, al quale però è ineludibile tendere, per il futuro dell’umanità.


La pace d’inchiostro è stata scritta, riscritta e, alla fine, approvata. Ci sono voluti quattro anni di colloqui e cento giorni di ratifica per chiudere, sulla carta, 52 anni di guerra tra governo e Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc). La sfida più ardua per gli accordi, però, è appena cominciata. E si consuma lontano dalle scrivanie dei negoziatori, nelle remote campagne colombiane, dove il conflitto è nato e si è perpetrato per oltre mezzo secolo. E dove ora ha la possibilità di concludersi davvero. A patto di affrontare il nodo cruciale: la terra e la sua feroce concentrazione.

La Colombia è il caso più drammatico in America Latina, a sua volta la regione più ineguale al mondo. Quasi i tre quarti degli appezzamenti produttivi – il 68 per cento – sono in mano allo 0,4 per cento delle aziende. Il che spiega perché la nazione sia, da decenni, tra le prime cinque per diseguaglianza, con un indice di Gini di 0,535 (il massimo è uno). In tale cifra, si nasconde la storica esclusione della maggior parte della società colombiana. E, dunque, la radice perversa di cinque decenni di massacri, con almeno 220mila vittime, 7,5 milioni di sfollati interni, decine di migliaia di feriti, mutilati, torturati. «Tale consapevolezza ci ha spinti ad agire. Non creando dal nulla. Bensì, cercando di far crescere le esperienze vitali germogliate negli ultimi decenni in ambito economico e sociale, nonostante il conflitto. Oasi stritolate dal deserto della guerra. Ora che quest’ultima è finita, tali processi possono realizzarsi in tutta la loro potenzialità», spiega ad Avvenire Luis Guillermo Guerrero, direttore del Centro de investigación y educación popular (Cinep) di Bogotà, fondazione creata 45 anni fa dalla Compagnia di Gesù per promuovere lo sviluppo umano integrale. Da qui l’idea di un progetto di cooperazione ad ampio raggio tra i gesuiti colombiani – attraverso il Cinep e altri organismi da loro realizzati, come l’Instituto mayor campesino e Suyusama – e tre realtà del Terzo settore italiano: Altromercato, il gruppo cooperativo Cgm e il Consorzio Open. «Un’alleanza creativa basata sulla condivisione di esperienze – prosegue Guerrero –. L’Italia ha una solida tradizione di economia cooperativa e sociale. Il proposito non è trasfe- rire il modello italiano nel mio Paese. Bensì farlo incontrare con quelle realtà colombiane impegnate, sul campo, in piccoli progetti locali di produzione agricola sostenibile, sostegno alle vittime, riconciliazione delle comunità e creazione di alternative alla guerra. Lo scambio sarà utile a entrambe le parti – la cooperazione autentica non è mai unilaterale – per sperimentare nuovi percorsi».

Il piano – che andrà avanti almeno fino al 2019 – sarà testato in alcune 'zone critiche' della geografia colombiana, perché pesantemente colpite dal conflitto: la regione di Nariño, del Cauca, del Valle del Cauca e il sobborgo di Soacha, vicino alla capitale. «Abbiamo tre obiettivi principali: favorire il reintegro degli ex combattenti, stimolare la riconciliazione delle comunità e l’educazione alla convivenza – sottolinea Vittorio Rinaldi, presidente di Altromercato –. Per raggiungerli, ognuna delle organizzazioni italiane partner lavorerà in base alle proprie competenze». Cgm, dunque, si occuperà in particolare della produzione perché, come dice il presidente, Stefano Granata, «l’agricoltura sociale è decisiva per la rinascita delle aree più martoriate dal conflitto». Altromercato curerà la commercializzazione e Open la formazione. «L’educazione delle nuove generazioni alla convivenza, il rispetto dei diritti umani, la giustizia riparativa – ribadisce il presidente del consorzio, Alessandro Padovani – è la premessa per costruire la pace nella Colombia rurale».

Un’utopia? Proprio nella diseguale e violenta America Latina, altre esperienze ci dimostrano, per quanto in piccolo, che gli squilibri più tragici possono – e devono – essere corretti. Il Cerro La Granadilla dista meno di 50 chilometri da Ciudad del Guatemala. Una nazione uscita nel 1996 da trent’anni di conflitto civile e, tuttora, al quarto posto nel Continente e al nono nel pianeta per ineguaglianza, con un indice di Gini dello 0,524 e il 56 per cento del Pil in mano a 260 famiglie. «Quando siamo arrivati a La Granadilla, nel 2001, si sentiva un battito perenne, come quello del cuore durante l’elettrocar-diogramma. Era, invece, il rumore delle mani dei bambini intenti a confezionare fuochi d’artificio», ci racconta Carlo Sansonetti, fondatore dell’associazione 'Sulla Strada' (www.sullastradaonlus. it). Le loro dita piccole e sottili erano l’unico mezzo di sopravvivenza per la piccola comunità di 25 famiglie. «Per prima cosa, abbiamo cercato di mandare i bambini a scuola dando ai genitori l’equivalente di quanto guadagnavano in una giornata: 0,50 centesimi», prosegue. La prima classe – improvvisata – comprendeva 22 piccoli. Ora alla scuola, costruita grazie alla donazione dell’italiana Amelia Pavoni, vanno in trecento, dai villaggi vicini. Poi è venuto il piccolo centro medico, infine il progetto agricolo. Un appezzamento di terra per offrire alle famiglie un’alternativa economica concreta alla produzione dei fuochi artificiali. Il campo, poi, contribuisce a mantenere la scuola e il presidio sanitario. «Piccoli passi. La Granadilla, però, sta cambiando – conclude Sansonetti –. Ora, al posto del battito di sottofondo, quando uno arriva si imbatte nella risata dei bambini».

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