Una delle metafore più efficaci per descrivere come funzioni il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e cosa significhi opporsi alla sua riforma è quella utilizzata da Tommaso Monacelli, economista della Bocconi in un suo tweet sull’argomento: «Abitate in condominio. Vi chiedono di sottoscrivere "pro quota" una polizza anti-incendio comune. Prevede che previo rimborso danni si accerti se il fuoco sia stato causato da un vicino fumatore disattento oppure da un imprevedibile cortocircuito. Che fate, rifiutate?».
Il palazzo è l’Europa, di cui l’Italia fa parte sia come condomino – purtroppo con il vizio di un debito fumante – sia come sostenitore pro quota delle spese comuni, interessato quindi ad evitare che un incendio doloso o colposo, magari appiccato altrove, finisca per bruciargli l’appartamento. La polizza anti-incendio è naturalmente il Mes, assicurazione con un massimale da 702 miliardi, per la quale la terza economia dell’Eurozona, la nostra, ha già versato 14,3 miliardi di premio, in parte utilizzati – circa 295 miliardi – per evitare che le crisi delle banche spagnole o irlandesi e soprattutto quella fiscale della Grecia finissero per bruciare la casa comune.
La polizza Mes, quindi, esiste da tempo (che cosa sia l’abbiamo spiegato qui), resta da chiarire cosa cambi ora per l’Italia – diventa per noi un cappio al collo? Un regalo alle banche tedesche? Prende i soldi ai poveri per darli ai ricchi? – e per l’Europa con la sottoscrizione del nuovo contratto "salva-Stati". Fermo restando che anche se a cambiare (di poco, vedremo) è il Meccanismo di stabilità europeo, a restare sempre uguale è invece il nostro debito pubblico, mastodontico sia in termini di stock sia considerato in rapporto al Pil, per quanto si tratti di un debito «sostenibile, punto e punto esclamativo» – ha ribadito mercoledì in Parlamento il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco – tanto nella cornice delle regole attuali quanto di quelle prossime venture.
Sostenibile a patto che non ci si metta a litigare con gli altri condomini e con i mercati, strumentalizzando per fini politici interni i fatti: questa sembra essere la ragione per la quale sul Fondo salva-Stati ci si azzuffa in Italia. Rivelando un’immaturità di fondo della nostra democrazia: il governo a maggioranza variabile – giallo-verde prima e giallo-rossa poi – ha negoziato per due anni raggiungendo un buon compromesso e poi rischia di mandare tutto alle ortiche e passare per inaffidabile con i partner seduti allo stesso tavolo.
Le novità della riforma
Dal punto di vista formale cambiano solo quattro articoli in un Trattato che ne annovera 48. E cambia poco anche nella sostanza, come ha spiegato Visco che qualche preoccupazione sulla riforma l’aveva pur manifestata: le modifiche introdotte – assicura il governatore – «sono di portata complessivamente limitata. La riforma non prevede né annuncia un meccanismo di ristrutturazione dei debiti sovrani. Come nel Trattato già in vigore, non c’è scambio tra assistenza finanziaria e ristrutturazione del debito». È la questione principale e sul punto non cambia niente.
«Anche la verifica della sostenibilità del debito prima della concessione degli aiuti è già prevista dal Trattato vigente – continua Visco –: è una clausola a tutela delle risorse dell’Esm (European stability mechanism, ndr), di cui l’Italia è il terzo principale finanziatore». Chi per due anni ha negoziato la riforma e ora grida al complotto, quindi, o non ha capito di che si parlava o sta trasferendo la discussione sul piano politico interno per altri fini.
Il Mes era e resta l’istituzione più simile che abbiamo – con i suoi 160 tecnici è fra l’altro la più piccola dell’Unione europea – a un "prestatore di ultima istanza" (come la Bce nei confronti delle banche, mentre per statuto l’Eurotower non può finanziare gli Stati) con la missione di soccorre Paesi che non riescono più a finanziarsi sul mercato emettendo bond. Se l’Italia o un altro Paese dovessero trovarsi nella situazione drammatica di non riuscire a raccogliere risorse perché nessuno compra più i loro titoli di Stato considerandoli troppo rischiosi – quanto è accaduto alla Grecia – sarebbe proprio il Meccanismo europeo di stabilità, con il suo capitale condiviso fra i 19 Stati dell’Eurozona, a intervenire emettendo bond con un rating altissimo (il nostro, al momento, è due gradini sopra il livello "spazzatura") per finanziare il prestito.
Si tratta di un aspetto di rilievo: con uno spread a 600 l’Italia o un altro Paese dovrebbero finanziarsi e quindi indebitarsi a costi proibitivi, mentre il Mes può prestare a un tasso notevolmente più basso. Il fondo salva-Stati era e resta quindi una difesa comune contro il default, non un viatico per arrivarci. A meno che non si voglia uscire dall’euro e ristrutturare il debito automaticamente cambiando moneta, con una svalutazione i cui costi supererebbero di gran lunga quelli di qualsiasi ristrutturazione. Resta per sempre valida l’opzione, per uno Stato in forte difficoltà o sotto attacco speculativo, di non ricorrere al Mes e provare a finanziarsi da solo sui mercati a tassi che potrebbe però risultare proibitivi.
Il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri, in audizione alla commissione Bilancio congiunta sulla Manovra al Senato il 12 novembre 2019 - Ansa
A decidere su sostenibilità del debito e sugli aiuti non saranno solo dei "tecnocrati"
Oggi a decidere sul programma di aiuti del Mes, per uno Stato che ne fa richiesta, è il "consiglio di amministrazione" del Meccanismo, organizzazione internazionale a carattere regionale, in cui siedono i ministri delle Finanze dei 19 Paesi dell’Eurozona. La richiesta di aiuto viene accettata dal Mes dopo che la Commissione europea e la Bce hanno fatto un’analisi sulla sostenibilità del debito e sulla capacità del Paese di ripagare il prestito. Si firma quindi un Memorandum of understanding con cui Commissione, Mes e Bce chiedono al Paese di rispettare alcune condizioni e si procede quindi con il sostegno finanziario.
La riforma prevede semplicemente che il Mes partecipi insieme alla Commissione all’analisi del debito, sentita la Bce, e continui a firmare il Memorandum – che non sarà invece più sottoscritto dalla Bce. Se Commissione e Mes si trovano in disaccordo sull’analisi di sostenibilità, l’ultima parola spetta comunque alla Commissione, che agisce come organo politico a differenza del Mes che è una istituzione intergovernativa. Il Fmi poteva prima (come per la Grecia) e potrà anche dopo la riforma partecipare al salvataggio, ma con un suo programma di aiuti distinto da quello europeo.
La possibilità di ristrutturazione di un debito pubblico c’era già prima
Che in «circostanze eccezionali» si possa arrivare a una ristrutturazione del debito di un Paese dell’Eurozona – in pratica, la decurtazione del valore dei titoli di Stato a danno degli investitori privati piccoli e grandi che li hanno acquistati – è già previsto nell’attuale Trattato del Mes. Con la riforma non cambia alcunché e non si introduce in alcun modo un criterio di ristrutturazione preventiva e automatica: il compito del Meccanismo è quello di arginare una potenziale crisi di solvibilità, nell’interesse di tutti i 19 Paesi dell’Eurozona, non di favorirla.
Per questo il Mes dispone di due linee di credito precauzionali (Pccl e Eccl) – a differenza dei prestiti, finora mai utilizzate – e continuerà a disporne per evitare che piccole crisi diventino choc sistemici: la riforma modifica solo i criteri di accesso alla prima, rendendoli più stringenti (il famoso parametro del rapporto debito/Pil sotto al 60%), per andare incontro a quegli Stati solidi, ma colpiti da choc esogeni come potrebbe capitare all’Irlanda con la Brexit.
È possibile tuttavia in «circostanze eccezionali» che queste linee di credito non bastino e sia addirittura lo Stato stesso a contemplare una ristrutturazione del debito per alleggerirlo. Al Mes è affidata allora, con la riforma, la possibilità di agire quale mediatore tra lo Stato che deve ristrutturare il debito e i creditori privati – per tutelare quindi anche i "Bot People" – solo su richiesta del Paese membro e in modo temporaneo e informale, quindi non vincolante.
Le Clausole di azione collettiva (Cacs) vengono per questo modificate al fine di rendere la ristrutturazione più ordinata: con la decisione "a maggioranza" – un voto unico di tutti i creditori per accettare i termini della decurtazione e non, come accade oggi, un voto separato per ogni tipologia di titolo di Stato detenuto – si vuole evitare di dare in pasto il default a investitori speculativi come è accaduto per esempio all’Argentina quando i "fondi avvoltoio" hanno bloccato la ristrutturazione portando il Paese in Tribunale.
Le clausole aumentano il costo del debito?
Molte preoccupazioni hanno destato, nella riforma del Mes, anche le nuove Clausole di azione collettiva, in gergo Cacs, che verranno introdotte a partire dal 2022. Per alcuni osservatori, fra questi il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, potrebbero far aumentare nella percezione degli investitori la probabilità di una possibile ristrutturazione del debito. E di conseguenza far aumentare lo spread.
L’esperienza degli ultimi anni mostra però che le Cacs già esistenti, quelle di "prima generazione" introdotte nell’Eurozona dopo il 2013, hanno finora sortito l’effetto opposto. Garantendo in realtà tassi più bassi per i bond emessi con tale assicurazione, fra questi la maggioranza degli ultimi, in ordine di tempo, titoli di Stato a medio e lungo termine italiani del nostro Tesoro.
L’unica differenza sostanziale fra "vecchie" e "nuove" Cacs è la procedura della votazione a maggioranza singola che sostituisce quella a doppia vatazione. Anche Maria Cannata, ex direttore del dipartimento Debito pubblico, nel 2018 aveva espresso delle perplessità sulle nuove Cacs. Oggi però, essendo mutato il contesto di mercato e la percezione del "rischio Italia", le promuove. Scrive infatti in un articolo pubblicato da lavoce.info: «Gli operatori non hanno più ragione di percepire la modifica delle clausole come segnale anticipatore di una possibile criticità».
Il governatore Ignazio Visco e Claudio Borghi il 4 dicembre in Commissione bilancio alla Camera per l'audizione sul Mes - Ansa
Il ruolo dl salva-Stati per le crisi bancarie
A conti fatti l’unica grande novità del nuovo Mes è la possibilità di alimentare con le proprie risorse il Fondo di risoluzione con cui le banche europee intervengono in caso di una crisi di liquidità, visto che le attuali regole comuni prevedono i meccanismi della ricapitalizzazione o del bail-in solo per le crisi di capitale. È in pratica un paracadute ulteriore (backstop) da 60 miliardi per eventuali choc.
Non un "regalo alle banche francesi e tedesche", ma un passo deciso e sostenuto anche dall’Italia verso una maggiore condivisione dei rischi nell’Eurozona a partire dal 2024. Andrebbe idealmente a braccetto con la richiesta italiana di una garanzia comune sui depositi, alla quale finora si sono opposti alcuni Paesi del Nord Europa a partire dalla Germania. La quale Germania solo nelle ultime settimane si è mostrata disponibile a discutere dell’argomento, chiedendo però di eliminare il "rischio zero" per gli investimenti nei titoli di Stato.
Il cuore del piano proposto dal ministro delle Finanze Olaf Scholz è infatti quello di misurare tale rischio sul rating del debito dei diversi Stati membri dell’Eurozona. Ciò, chiaramente, avvantaggerebbe la Germania, i cui Bund hanno un rating "tripla A" sono considerati l’investimento sicuro per eccellenza. L’Italia e le altre nazioni con spread elevati e rating mediocri sarebbero invece penalizzate, ma il duro colpo ricadrebbe soprattutto sulle banche italiane che hanno in portafoglio titoli governativi per 441 miliardi pari al 9% degli attivi.
La proposta è stata giudicata irricevibile dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Ed è su questa giusta battaglia che il "capitale politico" italiano, compatto, si dovrebbe concentrare per completare, insieme alla riforma del Mes, anche l’Unione bancaria. Chiamarsi fuori dalla prima – speculando per opportunismo propagantistico sulla ridefinizione delle regole comuni – significa auto-escludersi dal tavolo per la seconda.