Sono micro e sono tantissime ma, soprattutto, sono importanti per l’elevato numero di persone a cui danno un’occupazione. Stiamo parlando delle micro aziende, vale a dire le attività imprenditoriali fino a nove addetti. In Italia sono oltre 4,1 milioni di unità (pari al 95% del totale) e danno lavoro a quasi 7,6 milioni di cittadini (pari al 44,5% del totale). Un numero quasi doppio rispetto a quello riferito alle grandi aziende che, segnala l’Ufficio studi della Cgia, “assorbono” solo, si fa per dire, 3,8 milioni di addetti. Nelle micro ci sono 1,5 milioni di occupati in più rispetto alle aziende medio-grandi. Se, inoltre, mettiamo a confronto gli addetti delle medie e grandi imprese (sei milioni) con quelli a libro paga nelle micro (7,5 milioni), notiamo che in queste ultime lavorano 1,5 milioni di persone in più. Le micro aziende, altresì, generano il 29% del valore aggiunto riconducibile alle imprese (220 miliardi di euro su un totale di 750) e il 25% del fatturato nazionale (746 miliardi su un totale di 2.950). Il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, puntualizza: «Fino a 40 anni fa erano ritenute residuali, quasi un effetto collaterale del boom economico esploso negli anni ‘60. Molti esperti, addirittura, prevedevano che nel giro di qualche decennio sarebbero scomparse a causa della globalizzazione. Diversamente, le micro imprese si sono consolidate e oggi costituiscono uno degli assi portanti della nostra economia. E nonostante la crisi le abbia colpite duramente, mantengono ancora un peso occupazionale rilevante, sebbene la politica e in generale l’opinione pubblica non le tengano in grande considerazione».
Anche per queste ragioni, l’Ufficio studi della Cgia chiede con forza che si inizi a legiferare con particolare attenzione alle richieste sollevate dal mondo delle piccole e micro imprese. Negli ultimi tempi, invece, le cose stanno andando diversamente. Alcuni esempi concreti? Introdotto con il “decreto Crescita”, lo sconto in fattura per i lavori relativi a ecobonus e sismabonus provocherà una forte distorsione alla concorrenza a danno dei piccoli imprenditori del comparto casa. A sollevare questa denuncia è stata l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che in più di un’occasione ha segnalato come le disposizioni previste dall’art. 10 favoriranno i soli operatori economici di grandi dimensioni. Altrettanto preoccupanti rischiano di essere le conseguenze che potrebbero emergere con l’introduzione per legge del salario minimo a nove euro lordi all’ora. «Se questa misura diventasse legge – afferma il segretario della Cgia Renato Mason - il costo aggiuntivo in capo alle sole imprese artigiane sarebbe di 1,5 miliardi all’anno. Un aggravio considerevole, anche se decisamente sottostimato, in quanto non include l’effetto trascinamento che l’introduzione del salario minimo per legge avrebbe nei confronti dei livelli retributivi che oggi si trovano sopra i 9 euro lordi. Appare evidente che, ritoccando all’insù la retribuzione per i livelli più bassi, la medesima operazione dovrebbe essere effettuata anche per gli inquadramenti immediatamente superiori. Diversamente, molti lavoratori si vedrebbero ridurre o addirittura azzerare il differenziale salariale con i colleghi assunti con livelli inferiori, pur essendo chiamati a svolgere mansioni superiori a questi ultimi».
Un banco di prova molto importante per misurare la sensibilità del governo Conte, e in generale del Parlamento, nei confronti dei piccoli produttori sarà la legge di Bilancio 2020. Per questa ragione l’Ufficio studi della Cgia sta predisponendo un Manifesto a sostegno del ceto medio produttivo che, entro il prossimo autunno, verrà recapitato a tutti i deputati e i senatori italiani, affinché le loro proposte legislative “rispettino” le dieci richieste avanzate dagli artigiani mestrini. Questo pacchetto di misure sarà suddiviso in due cluster [più (+) e meno (-)]. Entrambi saranno composti da cinque punti. Nel primo cluster (+), l’Ufficio studi della Cgia chiederà più efficienza nella Pubblica amministrazione, più credito, più investimenti pubblici, più formazione professionalizzante e più servizi digitali. Nel secondo cluster (-), invece, l’associazione veneta reclamerà meno tasse, meno burocrazia, meno criminalità organizzata, meno lavoro nero e meno concorrenza sleale. Ogni punto sarà corredato da una nota descrittiva e da una illustrazione grafica.
I settori economici dove il peso occupazionale dei piccolissimi imprenditori è maggiore sono le attività immobiliari (93,3% del totale addetti), altri servizi alla persona, come il settore benessere che, ricordiamo, è composto da parrucchieri, barbieri, estetiste, massaggiatori eccetera (78,7%), i liberi professionisti (76%) e le costruzioni (65,4%). In termini assoluti, invece, il comparto dove il numero di addetti nelle micro attività è maggiore è il commercio-autoriparazione, con quasi due milioni di soggetti. Seguono i liberi professionisti con poco più di 972.400 addetti, il ricettivo con 884.000, le costruzioni con poco meno di 856mila e la manifattura con quasi 847mila lavoratori.
A livello territoriale, infine, il peso delle micro imprese al Sud è nettamente superiore rispetto al resto del Paese. L’incidenza percentuale degli addetti nelle piccolissime attività (0-9) sul totale addetti, infatti, vede primeggiare la Calabria (69%). Subito dopo il Molise (66,2%), la Sicilia (63,7%) e la Sardegna (63,4%).
In coda, invece, troviamo l’Emilia Romagna (40,5%), il Lazio (37,1%) e, in ultima posizione, la Lombardia (34%). La forte presenza al Sud delle micro attività - fa sapere l’Ufficio studi della Cgia - si deve al fatto che in questi territori il peso delle medie e grandi imprese è concentrato soprattutto al Centro Nord.