Clima che cambia, economia che cambia. Binomio inscindibile. E sempre più stretto, complesso. E spesso tragico. La crisi climatica che stiamo attraversando è epocale, tocca tutto e tutti. Ma non è (per ora) l’apocalisse. È anche attorno a questi temi che l’edizione 2022 del "Salone della CSR e dell’innovazione sociale" vuole ragionare. Così, nella tre giorni dal 3 al 5 ottobre, su più tavoli, ci si chiederà cosa accade e cosa fare. Anche da punti di vista apparentemente inconsueti. Per capire davvero la crisi climatica che stiamo vivendo, occorre partire dagli oceani, dice per esempio Mariasole Bianco – biologa marina e presidente di Worldrise, una onlus dedicata alla tutela e valorizzazione dell’ambiente marino –, che spiega: «Ci dobbiamo rendere conto del ruolo fondamentale che gli oceani hanno svolto nella mitigazione dei cambiamenti climatici assorbendo, dalla rivoluzione industriale ad oggi, il 93% del calore in eccesso prodotto. Si tratta di una cosa quasi inimmaginabile. Se così non fosse stato, oggi la temperatura sarebbe di circa 36° superiore. Eppure, bisogna arrivare agli accordi di Parigi del 2015 per trovare il vocabolo oceano in testi ufficiali di negoziati internazionali sul cambiamento climatico. Anche questa è una cosa inimmaginabile». Ma non basta, perché «la cosa più allarmante – spiega la presidente di Worldrise – è che gli stessi oceani hanno pagato caro il servizio che hanno reso all’umanità. Le acque sono più calde di prima fino a duemila metri di profondità, sono più acide e hanno meno ossigeno. A tutto questo si aggiunge l’innalzamento del livello del mare e l’intensificazione in termini di frequenza e potenza dei fenomeni meteorologici anomali». Con problemi ambientali enormi: dalla scomparsa delle barriere coralline alla perdita di biodiversità, fino ad arrivare alle conseguenze sulle popolazioni. Ma quindi che fare? Mariasole Bianco non ha dubbi: «Abbiamo ancora un piccolo margine di tempo per cambiare rotta partendo dalla riduzione drastica delle emissioni di gas serra. E poi dobbiamo pensare che parallelamente occorre mettere mano con decisione alla protezione degli ecosistemi marini e terrestri. Proteggere la natura vuol dire assicurarci che continui a svolgere il suo compito. Ma è necessario fare in fretta, perché la crisi climatica agisce in maniera sinergica con la perdita di biodiversità».
Sinergie negative, dunque. Anche in economia. Lo dice chiaramente Giovanni Battista Valsecchi – direttore generale di Generale Conserve Spa ASdoMAR –, che chiarisce subito un dato: «Per noi il cambiamento climatico è un problema assolutamente non secondario: noi dipendiamo dalla nostra materia prima e dall’ambiente in cui vive e si riproduce. Il tonno non può essere allevato e non si può riprodurre in cattività». Da qui tutto il significato economico della crisi del clima e della necessità di porvi rimedio. «Quello delle conserve ittiche in Italia – dice Valsecchi – è un settore che vale oltre un miliardo di euro, circa 900 milioni solo per il tonno. A livello europeo la dimensione è di circa 750.000 tonnellate che economicamente si traduce in circa 6 miliardi di euro. In termini di occupazione parliamo di migliaia di persone, ma il dato può ingannare perché il tonno è uno degli alimenti più comuni e diffusi». È anche da queste considerazioni che 10 anni fa Generale Conserve ha iniziato a redigere un proprio bilancio di sostenibilità intraprendendo un percorso doppio, interno ed esterno. «Ai fornitori – spiega Valsecchi –, abbiamo chiesto di avere attenzioni sui metodi usati per catturare il pesce oltre ad un impegno sulla tutela e salvaguardia dell’ambiente marino attraverso specifici programmi di controllo e certificazione. Richiediamo metodi di pesca che minimizzino le catture accidentali di altri pesci oppure di tonni non adulti che non abbiano già compiuto il loro ciclo riproduttivo. Ci affidiamo poi solo a flotte certificate». Analogo il percorso interno. «Ci siamo interrogati sui margini che avevamo per diminuire gli scarti e aumentare il risparmio di energia: nel nostro stabilimento di Olbia abbiamo installato un impianto fotovoltaico per ridurre le emissioni e il nostro processo produttivo può essere definito zero spreco», sottolinea Valsecchi che però allarga l’orizzonte del ragionamento e dice: «L’attenzione che dobbiamo avere nei confronti dell’ambiente non ha solo una motivazione etica ma anche strettamente economica e soprattutto sociale. Deve essere chiaro a tutti il legame strettissimo tra tutela dell’ambiente, lotta al cambiamento climatico, economia e occupazione».
Occorrono quindi soluzioni per affrontare con decisione le cause di quanto sta accadendo, ma anche strumenti per essere capaci di rispondere agli eventi catastrofici. Marisa Parmigiani – Head of sustainability & Stakeholder management del Gruppo Unipol e direttrice della Fondazione Unipolis –, dice subito: «Per noi la crisi climatica è ormai qualcosa che permea la nostra esistenza e di conseguenza è fondamentale lavorare sulla capacità di adattamento e di resilienza che possiamo avere. Occorre imparare a convivere con i fenomeni estremi oltre che puntare su strumenti che tentino di risolvere determinati problemi». Perché è un dato di fatto: cittadini e imprese non sono ancora capaci di convivere con quanto sta accadendo. E ne pagano le conseguenze. «Non c’è – precisa Parmigiani –, una preparazione adeguata per affrontare strutturalmente il cambiamento climatico. Occorrono quindi un’educazione diversa, ad iniziare dalle scuole, ma anche una politica climatica più forte da parte dei decisori pubblici». Obiettivi da raggiungere in tempi brevi, anche perché il clima che cambia ha conseguenze economiche pesantissime. Anche dal punto di vista delle protezioni assicurative. «Come compagnia – spiega a questo proposito Marisa Parmigiani –, pensiamo di avere un dovere sociale che ci spinge a coprire le conseguenze delle catastrofi naturali, ma abbiamo bisogno che vi sia una concomitanza di intenti per creare le condizioni di assicurabilità necessarie. Il settore agricolo l’esempio più lampante: se l’agricoltura non verrà supportata con programmi di ricerca e di gestione diversi da quelli tradizionali, presto non potrà più essere assicurata. Con le ovvie conseguenze sul piano della produzione alimentare».