domenica 17 aprile 2011
I tradizionali indicatori economici di sviluppo non vanno abbandonati, ma è giusto che le moderne società capitalistiche sappiano darsi traguardi più compatibili con un approccio umanistico dell’esistenza.
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Basta il Pil (Prodotto interno lordo) per misurare il nostro benessere? Per raccontare lo stato di salute di una nazione? Quel Pil che quando cresce abbastanza ci induce all’ottimismo, ma se arranca ci fa precipitare nell’umor cupo? Da tempo studiosi e politici, in tutto il mondo, avvertono il bisogno di trovare al Pil un partner. Nuovi indicatori capaci di descrivere situazioni sempre più complesse...Una particolare congiuntura, appunto, si sta verificando rispetto alle analisi sullo sviluppo umano, a livello mondiale e dei singoli paesi. Da un lato si vorrebbe aver la sfera di cristallo per prevedere gli andamenti futuri, mentre siamo continuamente sorpresi da avvenimenti ed esiti che non avevamo immaginato. Da un altro lato si ha la sensazione, soprattutto in alcuni paesi come l’Italia, che i tradizionali strumenti di misurazione dello sviluppo siano quanto meno insufficienti, se non addirittura fuorvianti, e che ci sia bisogno di trovarne di nuovi e migliori. E la Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi (dai nomi dei due premi Nobel per l’economia, Joseph Eugene Stiglitz attualmente alla Columbia University, e Amartya Sen, economista indiano della Harvard University, e dell’economista francese Jean Paul Fitoussi della Scuola di studi Politici di Parigi, in qualità di coordinatore) si è occupata proprio di questo, su incarico del governo francese, tra 2008 e 2009. Ci si domanda un po’ tutti, in sostanza, che cosa conti di più, se lo sviluppo economico e gli equilibri finanziari, o piuttosto il benessere e la qualità della vita, per capire e giudicare una collettività regionale o nazionale. E soprattutto ci si interroga sulle componenti dello sviluppo e del progresso delle nazioni, al di là dei fattori economici e produttivi, solitamente utilizzati come misurazione quasi unica.Ne è nato un processo, al di là degli esiti della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi, di sperimentazione di nuove misurazioni e di ideazione di nuove ipotesi di lavoro per l’analisi delle società e delle economie, sicuramente di grande interesse, ma anche di grande rischio, per la difficoltà ad orientarsi tra i tanti dati prodotti. Soprattutto gli organismi internazionali dei paesi più industrializzati (Ocse, Commissione Europea, Fondazione di Dublino) si sono esercitati nel periodo più recente nella produzione di nuovi indicatori, dopo che l’Onu, e in particolare la sua agenzia per lo sviluppo (Undp), avevano già prodotto indici sintetici di misurazione dello sviluppo e del benessere di tipo globale, considerati però fino a poco tempo fa adatti più che altro al terzo e quarto mondo.Ma cosa comporta andare oltre il Pil ed abbracciare la strada della misurazione della qualità sociale e del benessere largamente inteso attraverso confronti così complessi e indicatori tendenzialmente abbastanza eterogenei? Guardando ad alcuni di questi nuovi dati, relativamente alla situazione italiana, si scoprono aspetti in qualche caso molto interessanti, che possono aiutarci a capire le implicazione della rivoluzione che sta avvenendo. Ad esempio che il catastrofismo con cui qualcuno guarda al nostro paese non è sempre giustificato. I dati più facilmente disponibili, più tradizionali, e anche più noti, ci rimandano il quadro negativo che ben conosciamo, soprattutto nel confronto con i paesi europei più grandi e con i quali l’Italia ha fondato l’Europa: crescita del prodotto interno lordo, debito pubblico, disoccupazione, produttività ci vedono perdenti.L’ultima elaborazione dell’Ocse (Society at gance), che ha posto tra le priorità della propria attività futura proprio lo sviluppo di nuove misurazioni del progresso e della qualità della vita, mostra un confronto tra vari paesi, nel quale l’Italia presenta come unico punto di forza la speranza di vita. Più in generale l’Italia viene spesso collocata in quel gruppo di paesi definiti del "capitalismo infelice" (unhappy capitalism), insieme a Portogallo e Grecia. Ma guardando ad altri dati, emergono valori diversi. Per esempio collocare i fenomeni in un arco temporale, considerare cioè l’evoluzione nel tempo, può consolarci. Il lavoro di un esperto tedesco che opera nel Centro di Francoforte per il progresso sociale, Stefan Bergheim, proprio sull’applicazione a un certo numero di paesi degli indicatori proposti da Stiglitz (prodotto, speranza di vita, scolarizzazione e ambiente) nella loro evoluzione temporale tra il 1998 ed il 2008, mostra performance positive per l’Italia, più che per la maggior parte degli altri grandi paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito, ecc.). L’Italia risulta nona tra 22 paesi, per miglioramento, nei 10 anni considerati. Ancora, le rilevazioni di Eurofound (la Fondazione di Dublino creata dalla Commissione europea nel 1975 per contribuire al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro in Europa), effettuate sulla soddisfazione dei cittadini e dei lavoratori, indicano che l’Italia è il paese nel quale la soddisfazione è calata meno tra 2007 e 2010. Un’altra area nella quale, attraverso l’uso di nuovi indicatori, mostriamo risultati almeno in parte lusinghieri come paese è quella della coesione sociale di tipo informale. Ad esempio il confronto tra Italia e Germania realizzato da Heinz Herbert Noll (del Gesis di Mannheim), in termini di coesione sociale, ci vede in netto svantaggio per tutto ciò che riguarda gli indicatori di disuguaglianza, ma in vantaggio per alcuni altri indicatori che riguardano le relazioni sociali e l’aiuto in caso di difficoltà, specie se in caso di malattia. Ancora, le elaborazioni Ocse sui nuovi indicatori Stiglitz, come riportati ad esempio dalla ricercatrice di origine italiana operante a Parigi presso l’Ocse, Romina Boarini, indicano interessanti variazioni negli esiti dei confronti per quanto riguarda, in particolare, da un lato lo stock di capitale fisico e naturale dei diversi paesi, e dall’altro le attività dette non-market, cioè quelle riconducibili alla sfera del sociale informale.Questi e altri dati sono stati analizzati e discussi nel corso dell’ultimo incontro sul Social Reporting in Europa organizzato dal Gesis di Mannheim e dalla Fondazione romana Censis presso la Fondazione Villa Vigoni, un centro italo-tedesco per gli scambi culturali a livello europeo sul lago di Como. Certo, nulla fa pensare che sia opportuno, possibile e conveniente dare meno importanza, da oggi in poi, ai tradizionali indicatori economici di sviluppo, per basare le analisi nazionali ed internazionali prevalentemente su indicatori soggettivi e di qualità della vita. Ma va valutato con favore il trend in corso, di valorizzazione crescente dei fattori umani dello sviluppo e della qualità sociale e psicologica della convivenza. Questo è infatti un segnale significativo di spostamento dell’asse delle attenzioni e degli obiettivi delle moderne società capitalistiche verso traguardi più compatibili con un approccio umanistico dell’esistenza.
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