«Bella vista eh? Come sul ponte di prima classe del Titanic. Con la differenza che noi greci siamo già andati a sbattere contro l’iceberg e non c’è più niente da fare. Se non calare le scialuppe e brindare alla nostra sventura». Dall’esclusivo terrazzo del Galaxy Bar la Atene che si snoda sotto di noi sembra un ricamo luminoso nella notte, con il Partenone che lumeggia all’orizzonte e il ricco quartiere di Kolonaki ai piedi della collina di Licabetto, con le sue piazze, i suoi caffè, le sue vetrine di Gucci, Armani, Rolex, Prada. Da qui la crisi certo non si intravede. Ma Aristides Koutuliakos è un privilegiato e lo sa bene. Vicepresidente dell’unione autotrasportatori, medio industriale, ha sempre pagato poche tasse e da almeno un anno e mezzo ha trasferito gran parte dei suoi capitali all’estero. «Mal che vada – dice – me ne andrò da qualche altra parte con la mia famiglia». Abbiamo deciso di partire da qui, dal fastidioso empireo riservato a un’élite vezzeggiata per lunghi anni dalla classe politica e a cui veniva riservato ogni privilegio, per discendere negli inferi, in quella pancia del Paese che la crisi la sente e la paga direttamente di persona. Per renderci conto cioé di come ci siano due Grecie che si sfiorano senza incontrarsi: quella dei ricchi, che del
default, della disoccupazione, del taglio delle remunerazioni, delle tasse in arrivo si preoccupa con educato distacco e quella dei poveri, che un tempo poveri non erano ma si chiamavano classe media, rovinosamente precipitata nel giro di pochi mesi da un relativo benessere allo spettro della miseria.Scendiamo per strada. E scopriamo che tutti parlano di Maria. Non si sa nemmeno se esista, questa Maria, ma il suo caso viene evocato perfino da Aleka Papariga, l’arcigna segretaria del Kke, il partito comunista greco, che con la sua rumorosa opposizione all’
austerity caldeggiata da Papandreou ha portato i suoi consensi oltre il 10%. Maria è una bandiera, un totem, perché ha deciso di non pagare le tasse, di resistere, ribellarsi. «Facile a dirsi – dice il mio vecchio amico Kostias Johannidis, professore di inglese in pensione – molto più difficile opporsi». Kostias abita al primo piano di una palazzina nel popoloso quartiere di Goula. La prima cosa che mi mostra è il contatore dell’elettricità: «La tassa sulla proprietà ce la faranno pagare con la bolletta della luce. Se non la paghi, se non hai i soldi, la luce te la staccano». Andiamo in giro per le strade del quartiere. Ci sono molti negozi sbarrati e molte vetrine che strillano ribassi del 50-70%. «Un negozio su cinque ha già chiuso – dice Johannidis – gli altri boccheggiano. Anche perché si va a comprare più volentieri all’estero». Si fa fatica a crederci, ma è vero. Ogni mese seicentomila greci vanno oltre frontiera, in Macedonia, Bulgaria, Turchia. E non solo gli isolani o gli abitanti di Salonicco e delle zone confinarie, anche gli ateniesi. Comprano abiti, calzature, elettrodomestici, si fanno curare i denti e inserire protesi ortopediche. «Ultimamente però comprano anche generi alimentari: il mio vicino Christian – dice Kostias – parte da qui e torna due giorni dopo con un pullmino stracarico. E ci dorme anche dentro». Anche gli imprenditori fanno così. Un rapporto ufficiale dice che 1500 aziende manifatturiere si sono già trasferite nei Paesi confinanti. «Il governo – ammonisce Constantinos Michalos, presidente della Camera di Commercio e dell’Industria di Atene – ha superato ogni limite. Sta trasformando il Paese in un enorme ospizio per i poveri».Chiediamo di Maria. Nessuno sa bene dove abiti, ma questa pasionaria fantasma accende i cuori. «Lo sa? – s’infuria Nina Angelopoulos, ex commessa in un supermercato – mia madre prendeva 680 euro di pensione e gliel’hanno abbassata a 600, mio marito guadagnava 1250 euro ed ora ne prende solo 1000, io ho perso il mio lavoro, che era già precario. Mi resta questa casa, con la paura di perderla, o che mi taglino la luce. A meno che questa Maria non inventi qualcosa per riaccenderla e ci dica come fare. Oppure che il governo ci ripensi». Difficile: Giannis Michelakis, il portavoce di Nea Dimocratia, principale partito d’opposizione di centro-destra, ha parlato di «uno tsunami di misure ingiuste e insopportabili, risultato di una politica economica sbagliata». Aggiunge Varvara Knossides, portavoce degli insegnati di Atene: «Se ci decurtano lo stipendio base sicuramente per noi sarà la fame». E c’è anche un risvolto beffardo, quasi surreale, che ricorda il famigerato Comma 22: perché un cittadino greco abbia diritto a medicine gratuite deve dimostrare di essere povero, ma per ottenere il libretto d’indigenza, non deve avere debiti col Fisco e col Fondo delle pensioni. «E oggi – dice ancora Kostias – chi non ha debiti un po’ dovunque?» Scende la sera e dalla periferia ateniese ci scappa lo sguardo verso le colline dei ricchi. E alle parole di Aristides Koutuliakos: «Cosa crede?, l’Atene di Platone, di Pericle, di Eschilo non era una società giusta: un’oligarchia di poche migliaia di privilegiati poggiava sul lavoro di centomila schiavi. Solo che all’epoca si chiamava democrazia. Non vede qualche somiglianza con quello che sta accadendo?».