«Tenere sempre aperti gli esercizi commerciali per favorire i consumatori? È una logica folle». Mauro Bussoni, vice direttore generale di Confesercenti, non usa mezze misure quando parla dell’articolo 31 del decreto “Salva Italia” del governo Monti, che dà la possibilità agli esercizi commerciali di restare aperti 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Un fronte caldo quello delle liberalizzazioni. Che vede impegnato l’organismo associativo – che rappresenta 353.000 piccole e medie imprese italiane –, da molti anni. Ben prima, cioè, del varo del provvedimento dell’attuale esecutivo.
Bussoni, ha detto proprio follia? Se vuole può ritrattare...Per niente. Con la stessa ragione che si utilizza per giustificare questa scelta, e cioè una più allargata offerta di servizi ai consumatori, bisognerebbe allora procedere all’apertura di scuole, asili e quant’altro di domenica per dare la possibilità a chi lavora, e penso alle tantissime mamme, di usufruire dei servizi sociali. Perché non posso pensare che il governo abbia voluto, in questo modo, aiutare l’economia.
E perché no?Perché, come dicevamo quando il decreto era in itinere, l’apertura indiscriminata di tutte le attività in tutte le domeniche porta esclusivamente ad un aumento dei costi di gestione e trasferisce quote e consumi da parte degli esercizi tradizionali a favore della grande distribuzione. In buona sostanza, questa misura non produce alcun tipo di beneficio in termini di Pil. Intendiamoci, la nostra non è un’opposizione alle aperture domenicali in generale. La nostra è un’opposizione alle aperture domenicali continuate. Possono esserci, infatti, delle eccezioni.
Per esempio?Per esempio quando si prendono in considerazione i comuni turistici nel momento in cui è più alta la concentrazione di visitatori, oppure nelle domeniche di dicembre che precedono le festività, o per eventi particolari.
Si sente allora di condividere la manifestazione di domenica scorsa di dipendenti e famiglie?Sì, è una battaglia che condividiamo, fatte salve le eccezioni di cui le parlavo.
Quali sono gli effetti che i vostri aderenti registrano sul territorio?Il provvedimento crea una sperequazione, e questo è avvertito, tra le potenzialità di attività diffuse e tradizionali e i grandi gruppi della distribuzione commerciale, dove ormai si concentrano le vendite. Le città, intanto, si svuotano e i servizi diminuiscono.
E la tanto auspicata impennata dell’occupazione?Inconsistente. Anzi. Se da una parte si crea qualche posto di lavoro nella grande distribuzione, spesso precario, dall’altra chiudono i battenti tanti negozi. Altro che occupazione. In questo modo si alimenta invece la disoccupazione per le piccole imprese. In una prima parte si crea uno spostamento di consumi che va dai piccoli ai grandi; quando poi il mercato sarà assestato è ovvio che nessuno avrà più interesse ad aprire la domenica perché ci sono costi maggiori e non ci sono ragioni per tenere aperto, quasi che fare acquisti fosse una necessità impellente. Neanche le farmacie offrono i servizi che danno le attività commerciali: sembra assurdo ma è così. E anche in Europa le cose differiscono dall’Italia.
Torniamo alle difficoltà di quelle mamme che citava prima.La domenica lavorativa incide decisamente nella vita delle famiglie perché spacca il calendario dei nuclei, impedisce di creare momenti di condivisione e di sfruttare insieme il tempo libero. Ritengo poi anacronistico pensare di lavorare sempre di più in una società che si dovrebbe evolvere.
Dopo le tante iniziative che avete intrapreso tornerete di nuovo alla carica per chiedere di cambiare questa disposizione?Contro il decreto stiamo sensibilizzando il Parlamento. E abbiamo chiesto alle Regioni di opporsi proponendo un ricorso alla Corte Costituzionale. Cosa che è avvenuta. La Corte si pronuncerà a novembre. Faremo tutto il possibile perché si torni a dare piana competenza alle Regioni. Inoltre, stiamo anche pensando a una raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare.