venerdì 17 giugno 2011
Per molti esperti il futuro dei servizi pubblici locali non può passare solo dalla strada ripubblicizzazione come alternativa alle multinazionali e alle imprese che inseguono esclusivamente il profitto.
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La «ripubblicizzazione» dei servizi idrici integrati non è la via obbligata se si vuole rispettare il doppio sì degli italiani all’acqua pubblica. Dal 13 giugno l’alternativa non è più tra le società in house dei Comuni e la concessione ai privati, possibile ancorché non più obbligatoria. La legge esclude le imprese sociali dai servizi pubblici locali (diversamente dalle normali società cooperative) ma, con qualche aggiustamento potrebbero gestire acquedotti e depuratori e risolvere i problemi sollevati dal referendum. Dando anche un po’ di concretezza al principio di sussidiarietà e alle richieste di partecipazione da parte della società civile.Il plus delle imprese non profit è che, pur essendo società di diritto privato, debbono reinvestire gli utili e sono vincolate a perseguire un interesse pubblico. Rappresentano, insomma, la terza via tra pubblico e privato; garantiscono efficienza, ma non sottomettono il bene gestito alla distribuzione del profitto tra i soci. «Il referendum ha aperto uno spazio alle imprese sociali – conferma Paola Garrone, ordinario di ingegneria gestionale al Politecnico di Milano – ed esistono le condizioni per andare oltre la sfiducia verso il privato con scelte innovative, come la creazione di fondazioni di pubblica utilità».Il riferimento è alla tendenza emergente di sperimentare forme di gestione partecipativa che incrocino la dottrina sociale della Chiesa con quella ecologica dei «beni comuni». L’armamentario giuridico è (quasi) pronto, ma manca la cultura: «Ipotizzare che cooperative di utenti gestiscano le reti idriche non è campato per aria, negli Usa esistono società di questo tipo che gestiscono la distribuzione elettrica. Noi abbiamo una tradizione nelle cooperative, da cui si potrebbe partire». La Garrone ha appena concluso una ricerca sulle non profit utilities con la Fondazione per la sussidiarietà. Al centro, il caso della Welsh Water: «Delusi dalle privatizzazioni degli anni Ottanta, i gallesi crearono un’impresa sociale che ora gestisce tutto il servizio idrico. Ha una rappresentanza articolata e ogni socio può candidarsi all’assemblea dei soci che elegge il Cda». Impensabile, oggi, per un acquedotto italiano, in quanto la legge non consente al privato sociale di operare nei servizi pubblici locali.Attualmente, esistono due categorie di imprese sociali, quelle di sistema (cooperative sociali di tipo A e B, associazioni, fondazioni, non governative, ecc.) e quelle ex lege. Tutte non profit – e se l’utile è reinvestito la tariffa scende – ma tutte private, nel senso che, pur essendo vincolate all’interesse generale lavorano con gli stessi strumenti delle srl e delle spa. «Per far entrare le imprese sociali nella partita – spiega Giorgio Fiorentini, che insegna management delle imprese sociali alla Bocconi – occorrere aggiungere i servizi pubblici locali all’art. 2 del decreto legislativo 155 del 2006, dove si elencano i settori di intervento. Per abbreviare l’iter basterebbe inserirlo nella discussione di una proposta di legge presentata dall’onorevole Luigi Bobba».La «sperimentazione controllata» che auspica la Garrone potrebbe però partire già adesso, facendo perno sull’articolo 2 del decreto, che consente a un’impresa sociale di intervenire in settori non previsti dal 155 purché il 30% dei dipendenti siano persone "svantaggiate". Fiorentini: «Un’interpretazione estensiva potrebbe prevedere che è svantaggiato chi è senza un lavoro e allora...».Comunque, questa non è l’unica marcia in più del privato sociale. Angelo Mori, ordinario di economia politica all’Università di Firenze, dirige una ricerca sulla cooperazione tra gli utenti dei servizi pubblici e assicura che le cooperative «sono l’unica forma societaria che, diversamente da quelle pubbliche, poco efficienti, e da quelle private, vincolate alla distribuzione degli utili, possono superare agevolmente la strettoia creata dal secondo referendum: non è vero che togliendo il 7% di remunerazione del capitale investito tutto si blocca; le cooperative non andranno in crisi perché non sono obbligate a remunerare i soci: il beneficio si realizza abbassando la tariffa o migliorando la qualità del servizio». Con un aggiustamento legislativo, in verità, tutte le imprese sociali potrebbero superare quella strettoia: «Se un Comune crea una società mista non profit – spiega Fiorentini – il privato può ricavarne ancora fino al 5%, perché quello è il tasso delle obbligazioni che un’impresa sociale può emettere». Esistono anche imprese sociali, le fondazioni di partecipazione, che permettono di collaborare con il privato riservando al pubblico il controllo della gestione e inserendo gli utenti negli organismi di sorveglianza. «Se poi si affida la gestione operativa a una srl controllata dalla fondazione si ottengono tutti i benefit del privato, compreso quello di superare i vincoli del patto di stabilità commenta Fiorentini – al tempo stesso assicurando democraticità all’organizzazione e calmierando l’utile e quindi la bolletta, che era poi l’obiettivo dell’operazione referendaria». Ma se il punto è garantire il controllo degli utenti, «allora è molto meglio la società cooperativa», sottolinea Mori. Il dibattito, come si suol dire, è aperto.
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