domenica 5 marzo 2023
Brillante studentessa prima dell'agosto 2021, poi fuggita in Pakistan con tutta la famiglia. Ma ora Islamabad ha deportato il padre e anche lei ha fatto ritorno in patria e vive nascosta
Sadaf seduta alla finestra della casa in cui ora vive, in una località segreta in Afghanistan

Sadaf seduta alla finestra della casa in cui ora vive, in una località segreta in Afghanistan - Per gentile concessione di Sadaf Afghan (nome inventato)

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Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

A lungo ha atteso email di risposta che non sono mai arrivate. Le aspetta ancora, dal governo del Paese che sembrava intenzionato ad accoglierla e dall’agenzia dell’Onu per i rifugiati, l’Unhcr, che avrebbe dovuto proteggerla. Da quei messaggi di posta elettronica dipende se un nuovo capitolo della sua vita potrà finalmente aprirsi oppure no. Sadaf Afghan (nome inventato con cui ci chiede di venire chiamata) è fuggita dall’Afghanistan una sera di un anno fa. In tasca un visto legale per il Pakistan, Paese di transito da dove avrebbe atteso il via libera per raggiungere l’Australia. «Sono partita per Islamabad con le mie sorelle e il resto della famiglia, dopo avere ricevuto la lettera di conferma delle autorità australiane disponibili a tenere il colloquio che prelude al trasferimento», racconta con voce garbata al telefono, in un inglese perfetto. Non ci risponde dal Pakistan, tantomeno dall’Australia. Rilascia l’intervista dall’Afghanistan, dove ha dovuto fare ritorno, dopo che il padre è stato deportato dalla polizia pachistana, costringendo tutta la famiglia a tornare indietro con lui. Ora Sadaf è nascosta in una località segreta. Aspetta di ricevere nuovi documenti e di rimettersi in viaggio.

La sventura che la sua famiglia ha dovuto affrontare in Pakistan è ormai destino diffuso e comune. Dalla scorsa estate le autorità di Islamabad hanno iniziato a deportare i cittadini afghani entrati illegalmente nel Paese, ma anche quelli titolari di visti legali ormai scaduti (e, nella pratica, impossibili da prorogare). Da ottobre arresti e deportazioni si sono fatti sempre più frequenti. Negli ultimi due anni, con un’accelerazione dall’estate del 2021 per l’arrivo dei taleban al potere, in Pakistan sono stati oltre 250.000 i nuovi arrivi di persone in fuga dal territorio afghano. Tra questi, attivisti, giornalisti, noti funzionari governativi, uomini e soprattutto donne a rischio, inseriti nelle liste per i “resettlement” occidentali, ma rimasti bloccati entro i confini pachistani per i pesanti ritardi nel rilascio dei visti da parte dei governi che avevano promesso aiuto. Ora che l’Occidente sembra essersi scordato degli impegni presi per le evacuazioni e l’accoglienza, anche il Pakistan si libera di questi “ospiti” che avrebbero dovuto essere solo di passaggio.

Sadaf al pc, mentre prosegue i suoi studi universitari online

Sadaf al pc, mentre prosegue i suoi studi universitari online - Per gentile concessione di Sadaf Afghan (nome inventato)

«Già una settimana dopo il nostro arrivo a Islamabad, con largo anticipo, abbiamo presentato richiesta di rinnovo del visto pachistano, ma le autorità non l’hanno mai accordato, malgrado avessimo pagato per averlo» racconta la ragazza. Così, lo scorso luglio, quando suo padre è stato fermato per un controllo, è stato arrestato e subito deportato in Afghanistan. «Per tre giorni non abbiamo più saputo nulla di lui. Non abbiamo avuto altra scelta se non raggiungerlo, noi ragazze non potevamo restare lì da sole. A Islamabad ho conosciuto un gran numero di famiglie afghane che, ugualmente, aspettavano di venire sottoposte a interviste per il rilascio dei documenti da Paesi come Spagna, Francia, Gran Bretagna, Canada, Germania. Un’attesa lunghissima».

A metà dicembre, in una lettera aperta indirizzata al Primo Ministro pachistano Shehbaz Sharif, la segretaria generale di Amnesty International Agnes Callamard si era detta «preoccupata per la vita e la sicurezza dei rifugiati afghani giunti in Pakistan dopo il ritorno al potere dei talebani», persone «con e senza visto pachistano che stanno affrontando serie sfide per la mancanza di processi di regolarizzazione e (…) di rinnovo dei documenti che li mettono a rischio di arresto e respingimento». A Islamabad Sadaf aveva chiesto aiuto anche all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. «Sono stata io l’unica della famiglia a venire intervistata dall’Unhcr. Dal momento che i nostri visti pachistani erano già scaduti, ho domandato se fosse possibile ottenere un documento che provasse che avevamo chiesto protezione. Mi hanno risposto che mi avrebbero ricontattato, ma non l’hanno fatto».

Prima dell’estate del 2021 Sadaf era una brillante studentessa iscritta a due diverse università di Kabul. Di mattina frequentava i corsi in un ateneo, di pomeriggio assisteva alle lezioni di una delle facoltà dell’American University of Afghanistan. «Proseguo ancora i miei studi online», puntualizza, orgogliosa. I mesi precedenti alla partenza erano stati di forte apprensione e profonda ansia. «Ho ricevuto dai taleban messaggi di minaccia per il fatto di frequentare un’università americana. Mi hanno ordinato di lasciare gli studi. Ho anche ricevuto diverse chiamate di qualcuno che si fingeva dipendente dell’ateneo e che mi invitava a raggiungerlo per la possibilità di venire evacuata. In università mi hanno confermato che nessuno da lì aveva inviato quei messaggi, e che i numeri di telefono utilizzati erano sconosciuti. Lo stesso è accaduto ad altre studentesse e questo ha reso la nostra vita terrificante».

Durante l’intera conversazione il tono di voce di Sadaf risuona vitale e squillante, ma cambia in maniera repentina, spegnendosi, quando le chiediamo di questi ultimi mesi da reclusa in Afghanistan. «La vita qui è terribile. Stiamo sempre in casa, non possiamo uscire nemmeno per comprare frutta e verdura, non ci viene permesso dai taleban, che non lasciano circolare le donne senza un accompagnatore maschio della famiglia. Non riusciamo più a respirare aria fresca. Aspettiamo di ripartire, abbiamo richiesto un nuovo visto per il Pakistan perché se le autorità australiane ci ricontattano, dobbiamo essere pronte. Ma il lasciapassare pachistano è sempre più costoso. Le famiglie pagano cifre enormi per ottenere i documenti in tempi rapidi, anche mille dollari a testa».
Nell’attesa, Sadaf tenta di tenere attivo il canale con il governo australiano. «Ho scritto loro un’altra email per informarli che la nostra famiglia è stata deportata e che ora ci troviamo di nuovo in Afghanistan, ma non mi hanno ancora risposto».

Carica di incognite e pericoli, l’attesa prosegue sempre più logorante per lei, le sue sorelle e per centinaia di altre afghane, obbligate a nutrire una fiducia incondizionata che non può permettersi cedimenti, a dimostrare una pazienza senza fine, che poi altro non è se non umana speranza. La vita appesa a una email.

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