Kobra, 3 anni, e dietro sua zia Nasima, che non sa quanti anni ha. Beneficiarie di un progetto di sviluppo rurale dell’ex GVC (Gruppo di Volontariato Civile), ora WeWorld-GVC. Provincia di Herat, Afghanistan - Laura Salvinelli
Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire danno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE
Pubblichiamo una riflessione della scrittrice e giornalista Silvia Resta, inviata speciale Tg La7, esperta di cronaca giudiziaria, mafia, terrorismo e criminalità. Per il suo contributo alla campagna #avvenireperdonneafghane, Resta si è ispirata al ritratto di una bimba di 3 anni, Kobra, e di sua zia Nasima, che non sa quanti anni ha. Entrambe beneficiarie di un progetto di sviluppo rurale dell’ex GVC (Gruppo di Volontariato Civile), ora WeWorld-GVC. Provincia di Herat, Afghanistan. La foto è della fotografa romana Laura Salvinelli.
Sguardi. La donna ti guarda, rivolta all’obiettivo. Ha uno sguardo dritto ma spento.
Lei, la bambina, in primo piano, guarda altrove, guarda in là.
La bambina si chiama Kobra, ha tre anni. Visetto paffutello e occhi vispi che puntano all’altrove.
La donna, Nasima, è sua zia. Il velo che le incornicia il viso, una figlia piccola in braccio, gli occhi mesti. È giovane. Quanti anni ha? Mah, lei risponde che non lo sa.
Perché qui, quando nasce una donna, non si usa andare al comune e registrarla all’anagrafe. Annotare la data dell’evento. Festeggiare il compleanno. No. Non si usa.
È solo una donna, cioè niente.
Fotoritratto di Laura Salvinelli: tre donne.
Lo scatto le riprende nella cucina di casa. Un clic improvvisato, si vede, quasi senza nemmeno il tempo di mettersi in posa.
Herat, zona rurale dell’Afghanistan occidentale. Case povere di terra argilla e fango che si mimetizzano col paesaggio: tutto colore gialloocra come le montagne.
Quelle montagne che accentuano e accentano il senso di chiusura, quasi di prigionìa che vivono le donne afghane.
Ho fatto negli anni trasferte a Kabul e a Herat. Quelle donne mi sono rimaste dentro.
Non posso dimenticare una scena, in strada: lei chiusa nel suo burqua, fantasma nero, trascinata con una corda, come un cane, dall’uomomarito che cammina due metri più avanti. Sì, trascinata con la corda.
Non dappertutto è così, non è frequente, ma ti può capitare di vedere scene come questa. Difficile comunque vedere le donne in strada, a passeggio, soprattutto adesso, con il regime dei nuovi taleban; e spesso quando escono, accompagnate dal marito, è così: lui più avanti, per tenere la distanza.
Altra scena che non dimentico (proprio nel senso che sono storie che ti restano impresse e non c’è niente da fare te le porti dietro per sempre): la camerata delle donne bruciate. Le “autoimmolate”.
Ogni grande ospedale ha il suo reparto “donne bruciate”. Camerate, file di lettini riparati da retine tipo zanzariere e dietro le ragazze ustionate, con le loro bende, le fasce, i segni orrendi che rimarranno permanenti sulla faccia, sulle braccia, sulla pelle, sul corpo.
Nove, dieci, quindici anni.
Sono le ragazzine, anche bambine, che si danno fuoco. Si cospargono di benzina e si incendiano, si lasciano bruciare. Giovani disperate e bellissime. Spesso sono le più belle: del villaggio, del quartiere, e per questo le più “pretese”. Allora rischiano la vita pur di non subire il matrimonio combinato. Doversi sposare per forza, magari con un uomo schifoso, magari un settantenne bavoso e puzzolente che ha i soldi per comprarti ti ha scelta e ti vuole. E così vuole la legge. Allora mi do fuoco. Meglio morire, meglio rimanere sfigurata a vita, piuttosto che schiava.
Tutto questo la piccola Kobra, con il suo povero vestitino azzurro e la collanina al collo, ancora non lo sa.
Ma sua zia, Nasima, si. Nasima questo sapore di schiavitù lo conosce. E questo forse spiega quella mestizia nello sguardo, quella specie di spenta malinconia che nemmeno la presenza della macchina fotografica riesce ad accendere, a scuotere.
Eppure quando pensi all’ Afghanistan pensi anche alla meta esotica che era, negli anni Settanta, la stagione del sessantotto…
C’era chi ci andava via terra. Si partiva da Trieste. Si passava per la Turchia. Era la via dell’oriente. Una settimana, dieci giorni di viaggio. Qualcuno partiva con la “due cavalli”, la macchina degli hippies, o con il pulmino Wolkswagen, e tornava parlando di una terra meravigliosa, incantata e ospitale.
Kabul città di arte; Chicken Street, la via principale, che faceva il verso a Londra, a Carnaby street; piena di negozietti strani e di piccoli alberghi; lo struscio fino a notte tarda, le chitarre sulle terrazze, le ragazze afghane con le minigonne che dopo l’università passavano di là a bere una birra.
Non c’erano burqa non c’erano veli. C’era una normale libertà.
Questo prima dell’invasione sovietica del’79, prima della guerra infinita, dei taleban e di tutto quello che sappiamo e che ci porta fino all’oscuro orrore dell’oggi. Al regime che vieta alle donne l’istruzione, il movimento, i diritti, la vita.
Allora pensi: come è possibile? È l’orologio della storia che a volte impazzisce e torna indietro. E andare indietro sui diritti è un attimo.
Torniamo alla foto, a quegli sguardi, alle tre donne di Laura Salvinelli.
Per Nasima la vita è dura: tutto sulle sue spalle. Il marito invalido i figli la casa il cibo da cucinare per tutti la terra da coltivare la siccità. La polizia. I controlli.
Il suo sguardo è stanco.
Lo sguardo di Kobra invece è ancora vispo. Non proprio felice ma acceso e curioso. Frizzante. Spalancato al fuori.
Nella foto il confronto tra i due sguardi, tra gli occhi della donna grande e della donna bambina, è quasi inevitabile. E spacca.
Kobra guarda al fuori. Ancora non sa…
Il colpo di luce che illumina la sua faccia è il colpo d’arte della fotografa: una luce quasi caravaggesca, che tende al drammatico ma racconta di vita e non chiude a uno sprazzo. Una luce sapiente che trasforma la foto in un quadro.
E così Kobra diventa “icona”, simbolo: una per tutte.
Bambina afghana che guarda al fuori. Chissà cosa l’aspetta.
Difficile parlare di Afghanistan se non ci sei stato, se non hai attraversato anche solo dall’oblò dell’aereo quella spianata di migliaia e migliaia di chilometri di deserto; quella distesa interminabile di sabbia e niente, montagne desertiche che cambiano colore - dal giallo chiaro al marrone scuro - ma non cambiano l’effetto di clausura. Una condizione geofisica che isola ancora di più il popolo afghano.
Soprattutto le donne, represse, schiacciate, mortificate quasi annullate dal regime più barbaro del mondo. Carcerate a vita.
Quelle montagne come un muro che incornicia e rende prigioniero questo stato disgraziato dell’Asia che nei suoi confini non conosce il mare.
E quel mare sconosciuto, che qualcuno ogni tanto ci prova…
Il mare che può essere una strada, un canale per la libertà. Per rifarsi una vita. Quell’altrove possibile a cui forse guarda Kobra, senza saperlo.
Il mare che può essere strada per la libertà.
Ci hanno provato Mariam, diciassette anni, con la sorellina Niyayesh, sette anni, scappate da Kabul con la famiglia e finite a galleggiare in mare, davanti alle coste calabresi di Steccato di Cutro, nel naufragio di domenica 26 febbraio.
Erano arrivate a cento metri dalla salvezza ma il barcone si è andato a schiantare sulla secca e in quel mare sono annegate. Era un barcone di legno pieno di afghani e pakistani. Partiti dalla Turchia. La rotta ionica. In mare nessuno li ha soccorsi, sono arrivati quasi a riva ma poi lo schianto. La strage. L’ecatombe.
C’erano tante donne e bambine.
Come Kr14f9 (il nome non lo sappiamo, solo la sigla), età stimata nove anni, forse anche lei afghana. Il corpicino raccolto sulla spiaggia con la bocca piena di sabbia. Accanto una bamboletta di pezza. Forse la sua. Ma questo Kobra non lo sa.