Si dice che gli amici si riconoscano nel momento del bisogno. E se la saggezza popolare può spesso essere una guida efficace, dobbiamo interrogarci sulla risposta dei Paesi dell’Unione Europea di fronte all’emergenza coronavirus. Si sono (ci siamo) comportati da amici, o ha prevalso il riflesso di autodifesa che porta a privilegiare i propri interessi? La domanda è cruciale su due piani. Il primo è funzionale a scattare una fotografia dell’attuale stato di salute della Ue. Il secondo ha a che fare con le ipotesi di riforme che da tempo sono invocate per dare più slancio ed efficacia all’azione comunitaria. Sul versante dell’oggi l’immagine che si ricava è perlomeno sfocata, perché si deve cogliere un soggetto in movimento. La prima reazione è stata in ordine sparso, anche in funzione delle diverse percezioni della fase eccezionale che si approssimava. Il fatto che sia stata l’Italia a cominciare il calvario del contagio diffuso non ha particolarmente scaldato i cuori né dei Palazzi di Bruxelles e Francoforte né delle singole cancellerie. A parte la gaffe (o il messaggio voluto, forse ispirato dal fronte del Nord) di Christine Lagarde, poi ampiamente corretta dalla presidente della Banca centrale, c’è voluto un po’ di tempo perché le istituzioni centrali e le capitali comprendessero la portata della crisi e la necessità di intervenire. L’apprezzabile "siamo tutti italiani" della numero uno della Commissione europea, Ursula von der Leyen, non si è tradotto in una mobilitazione concreta fino a che non è stato chiaro che la pandemia avrebbe messo in ginocchio tutti i sistemi sanitari e tutte le economie, senza distinzione.
Anche allora, tuttavia, è emerso che l’approccio può essere diverso tra Stati e la solidarietà non è né automatica né spontanea. I "virtuosi" delle politiche di bilancio, dalla Germania all’Olanda fino alla Finlandia, hanno cercato di sfruttare l’occasione per mettere sotto pressione i meno virtuosi del Sud, magari inducendoli a ricorrere al Fondo salva-Stati che, oltre a concedere risorse, impone poi una severa tutela esterna al fine di rimettere in ordine i conti pubblici. Ma il Covid-19 ha tragicamente spazzato via calcoli e radicate diffidenze: uno tsunami umanitario e sociale ha accomunato le sorti dei 27, ora e in prospettiva, con un bollettino di vittime e previsioni di recessione che atterriscono e spingono ad agire insieme.
È arrivata così la sterzata della Bce, disposta a imbracciare di nuovo il bazooka inaugurato da Mario Draghi e a impegnarsi con nuove armi, poderose sebbene probabilmente non ancora risolutive. La Commissione ha sciolto i vincoli alla spesa pubblica tanto vituperati e sempre usati dalla propaganda sovranista, aprendo ad aiuti di Stato e a maggiore deficit in violazione del Patto di Stabilità, ieri infine ufficialmente sospeso.
A distinguersi in positivo l’Europarlamento, più pronto a reagire e più orientato a scelte comuni e solidali, a dimostrazione che organismi elettivi sovranazionali non solo hanno maggiore rappresentatività ma esprimono anche uno spirito più federale. Se la sciagura comune sta ricompattando i Paesi e ridandoci la misura della necessità di risposte comunitarie, soprattutto di fronte a un nemico che non conosce frontiere e nessun egoismo può frenare, emerge con forza l’urgenza per un’Europa che non voglia fermarsi sempre e solo alle intenzioni - di avviare passi oltre il modello intergovernativo. Esso implica che la Ue sono gli Stati membri, che le cessioni di sovranità sono solo parziali e limitate, le risorse condivise sono un’inezia e le grandi scelte restano il frutto di compromessi tra i singoli governi. Il risultato è che spesso le scelte non sono grandi. Il caso della sanità è evidente. Per vari motivi, politici e anche ideali (che qui non si possono discutere), non si è voluto finora demandare a Bruxelles un’autorità di coordinamento e di intervento in questo decisivo settore. Salvo poi lagnarsi ciascuno dell’inerzia e dell’impotenza europea. Molti affermano che dopo il coronavirus nulla sarà come prima. In tal caso, la lezione da trarre per la Ue è quella di sfruttare la pressione degli eventi che ha portato a una ritrovata (e forzata) unità di intenti e di azione per costruire un’architettura istituzionale non più basata sugli interessi da contemperare dei 27, ma su istituzioni e figure davvero comunitarie e di tipo federale. Stiamo vivendo una crisi squassante che indica l’interdipendenza tra Paesi e l’impossibilità di fare davvero da soli. Quando tornerà il sereno, sarà facile dimenticare i tempi difficili. Da subito dovremmo perciò mettere le basi per un edificio dal quale lo sguardo sia a 360 gradi sul continente, le prerogative robuste e la volontà indirizzata a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro collocazione geografica. Un’Europa in cui gli egoismi nazionali non possano essere più nemmeno una tentazione.