Un testo inedito brevissimo, folgorante (pubblicato qui a fianco, ndr). E tuttavia capace di sintetizzare in poche righe la rotta della fede nel nostro tempo, quello della modernità e della svolta antropologica. Nel giorno anniversario della morte di Paolo VI (avvenuta a Castel Gandolfo il 6 agosto 1978) pubblichiamo questo inedito costituito da due paginette vergate con la consueta nitida calligrafia. Nessuna correzione. Nessun ripensamento. Paolo VI aveva titolato questo suo pensiero “Dio”, forse con un’impronta vocativa. Soprattutto, nel fissarlo sulla carta, non aveva dimenticato l’uomo: nella consapevolezza che il possibile incontro fra Dio e l’uomo riempie di senso le nostre vite. Non datato, autografo, conservato in una cartella del pontificato intitolata dal Papa stesso “Note Varie” oggi custodita negli Archivi di Concesio , l’appunto apre il nuovo numero del notiziario dell’Istituto Paolo VI, accompagnato da un’articolata riflessione del gesuita Nicolas Steeves che, a ragione, scrive «Al Dio annunciato nel titolo si arriverà in realtà alla fine del percorso».
L’incipit infatti rimanda, in prospettiva agostiniana, al «desiderio» tutto «umano» di uscire dalle inquietudini, che si fanno pesanti quando riguardano Dio. Si parte dunque dall’uomo, qui «anima tormentata» che sostanzialmente ha innanzi due possibilità per cercare di placarsi. La prima legata all’esperire in prima persona attraverso i sensi, che passa dentro dinamiche interiori. La seconda che si aggrappa a interventi divini, miracoli, profezie, segni esterni.
La prima a rischio della solita accusa per i fautori dell’esperienza interiore di Dio, modernismo; la seconda oggetto del consueto attacco contro l’apologetica, estrinsecismo. Lo spiega bene Nicolas Steeves che glossa: «Ora, è proprio la congiunzione formale e la reimpostazione materiale delle prove ad intra e ad extra che consente di escludere le accuse contrarie di modernismo o di estrinsecismo». Accuse che non avevano risparmiato papa Montini, ritrascinandolo senza motivi fondati, in polemiche ormai lontane. Quei problemi, che tali erano stati considerati all’alba del ’900, erano stati superati nella feconda tensione del «cristianesimo paradossale » ripristinato dal Vaticano II voluto da Giovanni XXIII e concluso dal successore. Da qui l’invito all’ascolto delle risposte riplasmate da Paolo VI ai due desideri.
Risposte che sfociano nella circolazione e nella reciprocità dell’amore e che sono legate dai paradossi che segnano la relazione complessa fra Dio e l’uomo, dal carattere paradossale di una fede soprannaturale benché ragionevole, fede che illumina la ragione umana nella ricerca di Dio. A contenere il desiderio di segni, scorciatoia ancor praticata, scrive infine Paolo VI, ecco la «parola di Cristo », purché in presenza di «un atto profondo di fede». Insomma, come commenta Steeves, «chiedere un miracolo, esigere un segno senza che la grazia converta il cuore e lo sguardo è un affronto a Dio». E così ritornando all’incipit di questo scritto conclude: «Il desiderio dell’uomo può dunque sfociare sul Dio svelato e velato di nuovo che viene incontro all’uomo, Signore avvolto di giustizia e di misericordia.
L’uomo mosso dal desiderio può così incontrare il Dio che gli viene incontro con premura». Paolo VI, il Papa che forse l’anno prossimo potrebbe essere canonizzato, ce lo ricorda con questo frammento fra rigore teologico e potenza evocativa. Vi si legge il contributo del Pontefice anche nell’elaborazione dell’ecclesiologia di comunione. Indicandoci una fede che è principio originario compresente ad un orizzonte soteriologico, una fede partecipe dell’istanza cristocentrica, in adesione concreta alle verità del Vangelo.