martedì 14 maggio 2024
Al convegno dell'Ufficio nazionale per la Pastorale della salute di Verona l'analisi della situazione del Servizio sanitario e le proposte della Chiesa italiana per non limitarsi a subire il declino
Un momento del convegno Cei di Pastorale della salute nell'aula magna della Casa Madre dell'Opera Don Calabria di Verona

Un momento del convegno Cei di Pastorale della salute nell'aula magna della Casa Madre dell'Opera Don Calabria di Verona - GF

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Nella Casa madre dell’Opera Don Calabria di Verona l’appuntamento nazionale dell’Ufficio Cei per la Pastorale della Salute. Che davanti alle insufficienze del Ssn rilancia una visione evangelica centrata sulle fragilità umane

Il teorema della sanità in crisi è noto a tutti: fondi pubblici insufficienti, servizi sproporzionati alle richieste, personale numericamente lontano dalle esigenze, prestazioni deficitarie, ricorso crescente al mercato a pagamento e – per chi non può – rinuncia alle cure. Tutto vero, purtroppo. Ma c’è un punto sul quale questa ferrea equazione e più incognite può essere messa in discussione. Ed è il fattore umano, o per meglio dire la capacità dell’intero sistema-salute di sapersi ancora centrato sulle necessità delle persone: che sono di salute, certo, ma anche di cura nel senso più esteso.

Don Massimo Angelelli (al centro) con due partecipanti al convegno

Don Massimo Angelelli (al centro) con due partecipanti al convegno - GF

È una questione di veder chiare le priorità, a partire dal centro di tutto: se diventa chiaro alla politica, alle istituzioni, ai professionisti della salte e allo stesso Sistema sanitario nazionale che tutto l’immenso sforzo collettivo ha senso se dà risposta alla domanda umanissima di essere curati come persone bisognose di attenzione, allora le risorse – pur insufficienti – saranno dislocate dove più c’è bisogno, e non disperse, o sprecate. Al convegno nazionale di Pastorale della Salute organizzato dall’Ufficio Cei, in corso a Verona, questa idea sta emergendo come un’evidenza che nasce non solo dalla visione cristiana della persona ma dallo stesso Vangelo. Nella scelta del direttore dell’Ufficio don Massimo Angelelli di mettere a tema «Non ho nessuno che mi immerga» c’è infatti qualcosa in più di un’ipotesi di lavoro: questo del capitolo 5 di Giovanni è uno di quei versetti apparentemente secondari ma rivelatori di un mondo, l’espressione del paralitico che a Gesù non chiede di essere guarito ma lamenta la propria solitudine davanti alla piscina di Betzatà dalle acque taumaturgiche.

La platea del convegno di Verona prima dell'inizio della sessione plenaria di apertura

La platea del convegno di Verona prima dell'inizio della sessione plenaria di apertura - GF

E leva il grido del malato di tutti i tempi: chi si prenderà cura di me? «La dignità e la cura sono uno snodo prima teorico e poi pratico – è la riflessione del vescovo di Verona Domenico Pompili –. La cura nasce dalla dignità dell’uomo e deve avere una portata universale. Così non è nonostante l’originale impostazione del Sistema sanitario». Siamo allora diretti al capolinea del “sogno” scolpito nell’articolo 32 della Costituzione e tradotto nella legge 833 che nel 1978 diede forma al Ssn? Torniamo alla scena della piscina: «Ciò che rende possibile accorciare la forbice tra cura e universalità della stessa è un appello che per noi credenti muove da Dio stesso – commenta Pompili –. È il suo sguardo profondo, che non riduce il nostro impegno alla semplice cura biologica, ciò che consente alla pastorale della salute di essere un modo per evangelizzare la società in una delle sue frontiere decisive, quella della vita e della morte».

Gianno Cervellera, conduttore delle sessioni plenarie del convegno Cei

Gianno Cervellera, conduttore delle sessioni plenarie del convegno Cei - GF

Lo stesso luogo che ospita 150 operatori di pastorale della salute di tutta Italia (ma tra sessioni previe e online si superano i 1.200 partecipanti) parla di una radice viva: la Casa Madre dell’Opera Don Calabria guarda Verona dallo spettacolare balcone naturale di San Zeno in Monte e sembra un invito a osservare la crescente domanda di cura della società secondo lo sguardo di san Giovanni Calabria, uno dei tanti geni della carità operativa che rendono ancora così eloquente la testimonianza della Chiesa italiana nella sanità (all’Opera fa capo anche l’Ospedale Sacro Cuore di Negrar, vera eccellenza). Chi oggi “non ha nessuno” sa di poter chiedere che le istituzioni sanitarie (a cominciare da quelle cattoliche) sappiano esprimere quello sguardo che vede chi ha bisogno e risponde alla sua necessità.

«Il paralitico del Vangelo come il malato di oggi non chiede solo la guarigione ma prima di tutto una relazione » dice monsignor Rocco Pennacchio, assistente nazionale Unitalsi e arcivescovo di Fermo. In fondo è lo spirito di don Calabria, che qui si tocca con mano: «Far conoscere a tutti, e in particolare ai più fragili, che c’è una ricchezza spirituale oltre la salute del corpo – spiega il “casante” dell’Opera, ovvero il superiore nel linguaggio del santo veronese –. La cura è incontro tra persone, e per noi testimonianza di Dio che si prende cura dei suoi figli». Lo fa secondo la logica dell’incarnazione, sulla quale don Fabio Rosini spiega come a Dio «interessa la nostra parte impresentabile, quella di Lazzaro dietro la pietra del sepolcro: arriva quando l’amico è già morto per entrare nella sua e nella nostra condizione, il peggio di noi, quello che non vogliamo guardare. E per dirci che guarisce solo ciò che è amato. Non a caso a inventare gli ospedali sono stati i cristiani». Sì, perché oltre a malattia e salute c’è anche la «barella», quella che Gesù dice al paralitico guarito di portarsi via, come a fargli prendere in mano tutto ciò che l’aveva tenuto prigioniero. «Il Signore chiede che il sofferente sia coinvolto in profondità – riflette la biblista suor Grazi Papola, –, esca dalla rassegnazione indotta dalla ma-lattia, trovi parole per dire il suo desiderio così a lungo rimasto paralizzato».

Il programma dei lavori nelle mani di una religiosa in platea

Il programma dei lavori nelle mani di una religiosa in platea - GF

A condannarli alla loro condizione è però spesso una società che nei più vulnerabili non riesce a vedere altro che il loro limite. Di loro si fa portavoce Francesca Di Maolo, presidente dell’Istituto Serafico di Assisi: «Il Nobel Amartya Sen ha detto che i disabili sono i più poveri tra i poveri. Credo che quando si progetta una società a misura delle loro esigenze lo si fa per tutti. Invece solo il 13,6% dei disabili incontra strutture sanitarie con percorsi specifici, mentre corrono il rischio di morire anche 20 anni prima di altri per le loro stesse malattie mancando un’assistenza appropriata. Non è solo una questione di soldi ma di modello di welfare». Quello del quale devono essere testimoni le strutture sanitarie cattoliche, privato non profit «che eroga prestazioni pubbliche in convenzione e non vuole essere discriminato – protesta Mario Piccinini, direttore generale per la ricerca a Negrar – mentre sa offrire cure con più efficienza e meno spesa». Forse occorre considerare «che anche il Servizio sanitario è un malato fragile bisognoso di cure specifiche», dice Velia Bruno, che all’Istituto superiore di sanità dirige il Centro della Clinical governance –. E la cura non può che essere la medicina centrata sulla persona come nuovo paradigma». Astrazioni? Basta la voce da Gerusalemme di don Filippo Morlacchi sulla «crisi umanitaria di proporzioni incalcolabili» in corso a far capire che quello sguardo incrociato dal paralitico che “non aveva nessuno” ci interroga ancora.

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