I frati minori francescani della Custodia di Terra Santa lungo le strade di Gerusalemme (foto Custodia)
La bandiera con la croce rossa della Terra Santa sventola sui tetti della città vecchia di Gerusalemme. La terrazza panoramica che la ospita è quella di Casa Nova, la struttura d’accoglienza per i pellegrini a due passi dalla Basilica del Santo Sepolcro. La croce color cardinale è il simbolo della Custodia di Terra Santa, la provincia dei frati minori francescani che nel 2017 ha celebrato i suoi 800 anni di vita e d’«amore» per i luoghi di Cristo, come ripetono i “figli” del Poverello d’Assisi. E che adesso, nel 2019, si appresta a festeggiare gli otto secoli dall’incontro di san Francesco con il sultano d’Egitto, Melek-el-Kamel, nella cittadina di Damietta. Un gesto di pace fra l’Occidente cristiano e l’Oriente islamico nel segno di quello che oggi può essere definito il dialogo interreligioso. «Ecco perché il modo più significativo per fare memoria di questo evento è continuare a coltivare tutte quelle iniziative di confronto e amicizia che vanno nella direzione opposta rispetto allo scontro fra civiltà», spiega il custode di Terra Santa, fra’ Francesco Patton. Trentino d’origine, 55 anni compiuti lo scorso 23 dicembre, guida dal 2016 la Custodia. La “casa madre” si trova fra le viuzze del quartiere cristiano, vicino alla Porta Nuova.
Una melodia ancora da ritoccare echeggia nel complesso. Viene dall’istituto “Magnificat”, la scuola di musica promossa dai francescani. «Qui il dialogo fra le tre grandi fedi monoteiste è quello della vita – racconta Patton –. E passa anche dalla nostra piccola accademia, affiliata al conservatorio di Vicenza, dove professori e studenti sono cristiani, ebrei e musulmani. Non è compito nostro imbastire dibattiti a carattere teologico. Ci sono le apposite commissioni. Ciò a cui siamo chiamati è favorire la cultura dell’incontro dal basso, attraverso le relazioni. Il nostro non è un dialogo “con” l’ebraismo, “con” l’islam o anche “con” le altre confessioni cristiane. È uno scambio quotidiano fra persone, è fare un tratto di strada gli uni accanto agli altri». Come accade ad Ain Karem, la frazione alle porte di Gerusalemme dove è nato Giovanni Battista e dove Maria ha intonato il Magnificat. Un luogo diventato laboratorio di fraternità con l’ebraismo. «Da due anni abbiamo avviato un percorso legato alla figura del Battista anche per volontà della locale comunità ebraica – dice il ministro provinciale –. Ciò mostra come la cultura possa essere un interessante terreno d’incontro. E lo sono anche i nostri santuari. L’essere accoglienti, aperti a chiunque, corrobora la riconciliazione e la collaborazione».
Con i musulmani il “dialogo della vita” si sviluppa soprattutto attorno alle scuole della Custodia che solitamente hanno metà alunni di religione islamica, anche se in alcuni casi si arriva al 90% come a Gerico. «Ci sforziamo di offrire un’educazione di qualità che alimenti lo “spirito di Damietta”, cioè dell’incontro vissuto da san Francesco e dal sultano in piena quinta Crociata. Certo, è necessario il rispetto. Della nostra identità cristiana, anzitutto. Ma anche di quelle degli altri. Ciò significa che nelle aule c’è sempre il crocifisso o che a Natale vengono allestiti il presepe e l’albero. Al contempo si tiene conto, per citare un caso, del Ramadan in modo che la giornata scolastica degli allievi musulmani sia scandita guardando a questo loro tempo particolare». Nessuna paura dei simboli religiosi in Terra Santa. Una lezione per l’Occidente che spesso annulla qualsiasi richiamo al sacro negli ambianti pubblici? «Qui – chiarisce il guardiano del monte Sion e del Santo Sepolcro – abbiamo adottato una soluzione opposta rispetto alla cosiddetta “laicità alla francese” che impone il silenziatore alle identità religiose. In Israele e Palestina le identità religiose sono rumorose e chiedono di esprimersi. Naturalmente questo esige il rispetto ma preservando in modo chiaro il proprio volto, la propria tradizione. D’altro canto il pensiero occidentale potrebbe aiutare il Medio Oriente a capire il valore della libertà di coscienza che in questo angolo resta piuttosto limitata».
La parola “pace” è quella che più ricorre quando si fa riferimento alla terra di Cristo. «Sono un sostenitore della teoria dei sistemi – sottolinea Patton –. Ogni contributo alla pace che giunga da qualsiasi parte è un impulso alla pace globale. E ogni singola offesa alla pace è un danno alla pace nel mondo. Pertanto, quando si alimenta la violenza anche fuori dei confini della Terra Santa, non si contribuisce alla pace di Gerusalemme». Il superiore fa una pausa. «In un’ottica cristiana la radice della discordia è nel peccato. Ciascuno di noi, finché non si aprirà a un trasfigurante cambiamento interiore, continuerà con le proprie cadute a ostacolare la pace globale. Un’esagerazione? Non lo penso. Proprio da Gerusalemme, dal Calvario, Gesù offre all’uomo di ogni tempo il vero dono di riconciliazione. Con la sua morte e risurrezione propone una logica “altra” rispetto a quella imperante: è la logica non del togliere la vita ma del donarla; è la logica del non spargere mai il sangue altrui ma di essere disposti a versare fino all’ultima goccia del proprio sangue. In Cristo immolato per amore sulla croce c’è il seme della pace. Ogni volta che assecondiamo il peccato in tutte le sue forme, a cominciare dal nostro egoismo, rallentiamo il processo di pace».
Pace a Gerusalemme è anche una questione politica. E va a braccetto con lo status quo della città da preservare, oltre gli eventi divisivi che hanno costellato lo scorso anno: il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, la controversa legge sullo Stato ebraico, la fallita riconciliazione inter-palestinese, i razzi lanciati contro Israele, le proteste e i morti a Gaza. «Forse più che parlare dello status quo dovremmo avere il coraggio di sognare Gerusalemme come una città-modello per il mondo – avverte Patton –. E di realizzare il sogno di Dio descritto in numerose profezie del Primo Testamento. Quando si legge in Isaia “Venite, saliamo sul monte del Signore”, si tratta di un invito a tutta l’umanità ad abitare Gerusalemme. La città vecchia conserva la memoria fisica di momenti cruciali per le tre religioni nate da Abramo. E quindi vuol dire che appartiene a tutti. Il fatto che continuino a esserci tensioni è la riprova dell’unicità di Gerusalemme».
I trecento frati minori che oggi appartengono alla Custodia non sono solo “guardiani” di pietre e di cinquanta santuari. «Da otto secoli la nostra missione è di rendere vive queste pietre – sostiene il ministro provinciale –. San Francesco ha sempre avuto a cuore l’Incarnazione. Per questo amava la Terra Santa. Per noi frati amare questa regione significa amare Gesù». Il religioso spiega che le sfide per la Custodia si evolvono, seppur nella fedeltà al mandato del santo umbro. «Il primo compito resta quello di preservare i luoghi santi. Il che contempla anche l’accompagnamento spirituale di chi li visita. E dobbiamo dire grazie a Paolo VI, oggi santo, che volle la colletta per la Terra Santa ogni Venerdì Santo nelle parrocchie di tutti i continenti. Un segno concreto di attenzione per consentire di immergersi ora e in futuro nel “quinto Evangelo”, come questa terra è stata chiamata». Poi c’è il fronte sociale: le scuole, le case per le famiglie, l’assistenza medica. A questo si aggiunge l’impegno dei francescani nelle parrocchie. «È urgente aiutare i cristiani locali a restare in Terra Santa. Più che un sostegno economico, serve far comprendere loro che essere cristiani in Terra Santa è una vocazione e una missione che indica la rotta ai fedeli del mondo». E i pellegrinaggi possono essere un elemento di vicinanza. «Si tratta di un supporto tangibile. Ma suggerisco sempre a chi li organizza di prevedere un momento d’incontro con le realtà locali: una parrocchia, una scuola, un presidio sociale. Da cui magari può scaturire anche un gemellaggio».