martedì 3 dicembre 2024
Il domenicano londinese, teologo e conferenziere tra i più noti al mondo, riceverà la porpora il prossimo 7 dicembre: in Occidente la sfida da vincere è contro l'individualismo
Padre Radcliffe durante la meditazione proposta ai padri sinodali nel ritiro prima dell'avvio dei lavori

Padre Radcliffe durante la meditazione proposta ai padri sinodali nel ritiro prima dell'avvio dei lavori - Agenzia Romano Siciliani

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Ascoltare padre Timothy Radcliffe non è mai banale. Perché ogni volta regala un’idea, uno spunto, un’immagine su cui riflettere, arricchendo i suoi interventi di quella sana ironia capace di stemperare gli argomenti più spigolosi. Settantanove anni, dal 1992 al 2001 maestro generale dell’Ordine dei Domenicani, biblista e oratore di fama mondiale, il prossimo 7 dicembre papa Francesco lo creerà cardinale.

«Il 6 ottobre, quando il Papa ha dato l’annuncio – spiega padre Radcliffe - ero a San Clemente con i domenicani irlandesi. Dopo pranzo sono andato a fare una siesta - un dovere sacro - e ho notato che nella mezz’ora precedente erano arrivate 43 email. Che sorpresa! La prima era del mio priore di Oxford alla comunità. I miei confratelli l’avevano saputo prima di me! Ho pensato che ci fosse stato un errore! Il sentimento più forte che ho provato è stato nel constatare la gioia dei miei fratelli e sorelle domenicani, perché la festa cristiana non è mai privata. A renderla ancora più profonda, sapere che anche il mio amico e fratello Jean-Paul Vesco, arcivescovo di Algeri stava per essere nominato cardinale. Posso dire che ho vissuto un’esperienza di fraternità condivisa. Per questo mi sentivo tanto a disagio quando le persone hanno concentrato la loro attenzione solo su di me. La felicità sta nel dimenticare sé stessi. Avrei voluto dire a tutti: “Sono sempre e semplicemente io”. Né santo né demone, solo una persona perdonata, come tutti».

La notizia è arrivata durante la seconda sessione del Sinodo sulla sinodalità, cui lei, soprattutto con le sue meditazioni ha dato un impulso importante. Qual è stato il risultato più significativo dell’assemblea dei vescovi?

Questo Sinodo sfida ogni cultura, ma ciascuna in modo diverso. Parlando di noi occidentali, la sfida è all’individualismo radicale. Gli esseri umani sono relazionali. Non è come scrisse Cartesio, “penso dunque sono”, ma, come si dice spesso in Africa, “sono perché siamo”. Siamo chiamati a fiorire nell’amore reciproco, che è la Trinità. Il Sinodo testimonia che nella Chiesa tutte le vocazioni sono al servizio della mutualità. Possiamo essere noi stessi solo se viviamo “con” e “per” gli altri. I presbiteri spesso si lamentano della solitudine e dell’isolamento, ma il sacerdozio ordinato è al servizio dell’amicizia a braccia aperte di Gesù.

Il cristiano non può essere un solitario, quindi.

Tanto meno se è sacerdote. Anche l’eremita ha un suo posto nella comunità. Un’altra dimensione dell’identità cristiana centrale in questo Sinodo e che io sto cominciando a capire è la reciprocità. Molte delle domande emerse ruotano attorno al modo in cui dobbiamo vivere nella reciprocità e nell’uguaglianza, pur rispettando le diversità. Per esempio, la differenza tra uomini e donne, tra ordinati e laici, o le relazioni tra le diverse culture. Dobbiamo passare, credo, da un’idea di ruoli fissi a quella di relazioni reciproche, in cui scopriamo chi siamo attraverso l’altro. Le persone imparano a essere madri o padri, per esempio, relazionandosi con i propri figli, e viceversa. Le donne e gli uomini scoprono la propria identità non attraverso idee predeterminate di genere, ma mediante relazioni che crescono nel corso della vita. È insieme che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Il popolo fedele ci insegnerà come essere sacerdoti se avremo il coraggio di ascoltare.

Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è: “Ascoltatelo! Per una spiritualità sinodale” (Libreria editrice vaticana, pagine 240, 16 euro), in cui evidenzia come lo scopo primo del Sinodo sia non tanto produrre documenti quanto aprire orizzonti di speranza. Come aiutare l’uomo di oggi a ritrovarla?

Viviamo in un periodo di crisi: politica, sociale, personale ed ecologica, però non dobbiamo averne paura. Del resto, ogni Eucaristia è una celebrazione della più grande crisi della storia della Chiesa, forse dell’umanità! Il Divino Amore si è incarnato e noi lo abbiamo ucciso! Ma Gesù trasforma questo momento di disperazione nel dono della speranza: «Prendete e mangiate. Questo è il mio corpo dato per voi». La sua vita sta per essere presa con la forza, ma Egli la fa diventare un dono di vita per gli altri. Gli esseri umani maturano solo attraverso le crisi: dalla crisi della nascita a quella della pubertà, dell’abbandono della casa, della malattia e del fallimento e infine della morte. Se fuggiamo dalle crisi, non cresciamo mai. Quindi per me il grande segno di speranza è la Messa. Qualunque siano le sfide e le sofferenze che viviamo - anche il tradimento dell’amore come ha subito Gesù - possiamo deporle sull’altare all’offertorio confidando nella benedizione di Dio. L’altra fonte di speranza inesauribile sono i giovani. Teilhard de Chardin diceva: « Il futuro appartiene a coloro che danno alla generazione successiva una ragione per sperare ». E qui si torna al meraviglioso concetto di reciprocità. Noi dobbiamo dare speranza ai giovani, ma anche loro danno speranza a noi. Una preghiera di prefazio recita: “Tu rinnovi la Chiesa in ogni tempo suscitando uomini e donne eccellenti nella santità”. Questi santi sono già tra noi, forse ci sfidano. Ci disturberanno! Accogliamoli!

Sempre a proposito della speranza, lei ha detto che per alimentarla bisogna incontrare e ascoltare chi è disperato. È davvero così?

Volevo dire che nei luoghi di apparente disperazione ho incontrato persone che mi hanno dato speranza. Per esempio, in Iraq, i miei fratelli e sorelle domenicani stanno vivendo un momento difficile, ma non sono disperati. Sono gioiosi. Forse le esperienze di sofferenza demoliscono il nostro ottimismo superficiale, le nostre piccole speranze. Allora o ci disperiamo o abbracciamo la speranza del Regno, la speranza pasquale. Una delle mie prime notti a Baghdad l’ho passata in tempo di guerra. Sono andato in un ristorante musulmano, e anche lì ho sperimentato l’allegria.


«Siamo noi stessi solo se viviamo “con” e “per” gli altri
I presbiteri si lamentano spesso della solitudine
ma il sacerdozio è al servizio dell’amicizia
a braccia aperte di Gesù»

Ci sono le guerre, i cambiamenti climatici, la sempre più evidente emarginazione dei poveri. Rispetto al messaggio evangelico il mondo sembra andare al contrario, il credente in questa situazione cosa deve fare?

Prima di tutto pregare! Crediamo o no che Dio risponde alle preghiere? Il cuore della nostra fede è che nessuna preghiera rimane senza risposta. Lo dice il Vangelo e quindi dobbiamo crederci. In secondo luogo, facciamo cose che possono sembrare poco importanti, viste le grandi sfide che dobbiamo affrontare, però dobbiamo ricordare che la grazia di Dio opera attraverso le piccole azioni. I discepoli hanno solo pochi pesci e pani quando Gesù chiede loro di sfamare le migliaia di persone affamate nel deserto. Sembra che non ci sia speranza. Ma il Signore della messe benedice abbondantemente ciò che essi offrono, così come Dio benedirà anche le nostre piccole azioni. La predicazione del Regno è iniziata con Gesù che ha chiamato alcuni pescatori insignificanti.

Lei è conosciuto per il senso dell’umorismo di cui pervade i suoi interventi. Spesso invece si accusano i cristiani di essere un popolo triste. Come mai fatichiamo a testimoniare la gioia? Non è un controsenso?

Il senso dell’umorismo può assumere molte forme! Quello cristiano non deve essere distruttivo, non deve prendersi gioco degli altri. Nella tradizione britannica, di solito è giocoso, ludico. C’è un passo in Proverbi 8 in cui, secondo alcuni studiosi, la Sapienza giocò come un bambino quando Dio creava il mondo. Gesù ci chiama a essere come i bambini, giocosi e scherzosi. Se prendiamo Dio sul serio, non possiamo farlo troppo con noi stessi!

Mi sembra di capire che anche il senso dell’umorismo cristiano è nel segno della condivisione…

Karl Rahner diceva che «la gioia è un segno infallibile della presenza di Dio». Ma non possiamo semplicemente decidere di essere gioiosi. La forza di volontà non è sufficiente. Però possiamo scegliere di essere aperti alla gioia e al dolore del mondo o invece di chiudere gli occhi e le orecchie. Il mondo è fatto di gioia e di dolore, ma se diventiamo egoisti e narcisisti ci chiuderemo e la vita diventerà noiosa! Dio promette di togliere i nostri cuori di pietra e di darci dei cuori di carne (Ezechiele 36.26). Gioia e dolore sono realtà inseparabili. Non si può essere veramente gioiosi senza lasciarsi toccare dal dolore degli altri. Pensiamo a San Francesco d’Assisi, che portava le stimmate della croce, eppure rideva molto. La decisione importante da prendere è quella di aprirsi agli altri, ai loro drammi, alle loro lotte e al loro eroismo. Se si condivideremo le loro pene e i loro dolori si aprirà uno spazio dentro di noi che sarà riempito dalla gioia di Dio.

Si può trattare con umorismo, senza rinunciare alla profondità, anche gli argomenti più profondi. Come nel suo recente volume, scritto con Lukasz Popko “ Domande di Dio, domande a Dio. In dialogo con la Bibbia” (Libreria editrice vaticana, 256 pagine, 25 euro). Tante volte invece persino i sacerdoti faticano a testimoniare la gioia della loro vocazione. Lei in questo, se non sbaglio si richiama all’esempio di san Domenico.

San Domenico era, come san Francesco, un uomo insieme di gioia e di dolore. Piangeva di notte per i peccatori, ma di giorno gioiva con i suoi fratelli per l’amore e la misericordia di Dio. L’amore creativo di Dio ha trionfato nel giorno di Pasqua. Certo, vivremo momenti di tristezza, ma la gioia non può essere mai del tutto spenta.


«Non si può essere veramente gioiosi
senza lasciarsi toccare dal dolore degli altri
San Francesco d’Assisi portava le stimmate
della croce eppure rideva molto»

Leggendo le sue riflessioni mi ha colpito la definizione dello studio come atto di speranza. Spesso noi guardiamo al teologo come a una figura distante. Lei invece lo definisce «un mendicante che sa come ricevere i doni del tutto gratuiti del Signore».

Gli uomini sono stati definiti “esseri in cerca di significato”. Desideriamo soprattutto che le nostre vite abbiano un senso. Václav Havel, il drammaturgo diventato presidente della Repubblica Ceca ha detto che la nostra speranza non è pensare che tutto andrà bene ma che le nostre esistenze hanno un significato. In questo senso lo studio rappresenta molto più che acquisire qualifiche per poter trovare lavoro. Dalla fisica alla biologia, dalla letteratura alla poesia, dalla storia alla psicologia, tutto lo studio è orientato a capire chi siamo e perché esistiamo. I cristiani credono che il senso della vita sia pienamente rivelato nella Parola fatta carne, Gesù che ha trionfato sulla morte e sull’odio. Ma comprendiamo Lui e il significato delle nostre vite con l’aiuto di quanti abbiano la passione di capire, siano essi scienziati o registi o amanti della natura. Credo che chiunque voglia appassionatamente capire, sia sulla via di Dio. Alla fine, la nostra speranza è che, come diceva San Paolo, «conosceremo perfettamente come anche noi siamo conosciuti» (1 Corinzi 13,12). Perché vedremo l’Amore Divino nella visione beatifica, che è il significato ultimo di tutto.

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