Vive da venticinque anni sulla linea di confine in compagnia di cinquemila bambini e ragazzi. I cinquemila hanno un volto e un nome: Maura Massimino li porta nel cuore e nella mente. Ricorda il primo, ricorderà l’ultimo. Lei è la direttrice dell’Unità Pediatrica dell’Istituto nazionale tumori di Milano. La linea di confine è quella tra la vita e la morte. La cura, i progressi scientifici e tecnologici aiutano, ma la linea di confine resta inviolata e inviolabile. Non si possono creare barriere, non si può imprigionare la morte. La nostra umanità conosce tanti limiti e un’unica certezza: non sappiamo né il giorno né l’ora eppure verrà il giorno e verrà l’ora in cui la nostra storia, piccola o grande, finirà. Certo noi crediamo che sia solo un passaggio. Che di là ci aspetta una vita nuova, senza ombre, dove la domanda di bene, di vero e di bello avrà una risposta piena. Ma sulla linea di confine quella domanda diventa decisiva e spesso si fa grido, si fa pianto dirotto, si fa dubbio. A partire dal dolore degli innocenti. Questo reparto ogni anno apre le porte a 250 piccoli pazienti, il sessanta per cento dalla Lombardia, il quaranta dal resto d’Italia e del mondo. Qui medici, infermieri, insegnanti, psicologi e volontari vivono accanto ai ragazzi, spendendo la propria professionalità, spandendo sorrisi, ma anche tante lacrime trattenute davanti ai piccoli pazienti e ai loro genitori per poi lasciarle scorrere nella solitudine di una stanza. L’Unità di pediatria è al settimo piano dell’Istituto tumori. Mercoledì 19 dicembre è un giorno speciale: la sera si festeggia insieme il Natale che viene. L’albero di Natale, il presepe con i personaggi di stoffa e lana creati dai bimbi. Una grande stanza addobbata con i festoni si riempie di bambini e ragazzi con cappellini rossi da Babbo Natale sulle teste calve, di dottori e operatori e dei loro familiari e dei mecenati che sostengono le tante iniziative a favore dei piccoli pazienti.La dottoressa Maura Massimino ci accoglie con un grande sorriso e gli occhi pieni di luce. Senza quel sorriso, senza quella luce non sarebbe possibile confrontarsi ogni giorno con il dolore degli innocenti. Da dove le viene il coraggio? La risposta ce la offre una lettera che ha appena ricevuto e che ci lascia leggere: «Primo pensiero: la ringrazio per le cure e tutto il resto che sta facendo per me e per tutti gli altri ragazzi. Secondo pensiero: la ricordo sempre nelle mie preghiere. Chiedo con speranza a Gesù di illuminare lei e il suo gruppo di medici, per capire come guarire queste brutte malattie». Qui il passaggio dal vagito del Bambino di Betlemme al grido del Crocifisso del Golgota è davvero breve. Non passano trentatré anni, la croce viene portata da chi ha pochi mesi o anni che si contano sulle dita della mano. Ma la domanda è la stessa che interroga il silenzio del Padre, ed è la domanda di un innocente: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» . «Eppure – dice la Massimino – non è questo il luogo dove si è più disperati. La disperazione spesso viene prima. Quando ci si sente soli di fronte al mistero del male e ci si chiede: perché proprio a me? Poi si arriva in reparto e si incrociano altri sguardi attoniti segnati dalla paura e si capisce che non si è soli, che altri vivono quella condizione. Ma la disperazione vera è quando si vive la pena, perché la malattia è anche una pena, come se non dovesse mai avere una fine». Quella fine può essere la guarigione, ma quella fine a volte è la morte. E poi ci sono i genitori che spesso vivono la malattia dei figli come frutto di una loro colpa, ma succede anche ai bambini, ai ragazzi. Come duemila anni fa era per il cieco nato. Gesù è venuto anche per scardinare quella credenza millenaria, ancora viva in tante culture, che associava peccato a malattia.
«Ho capito – continua la Massimino – che avrei studiato medicina per curare questi bambini quando ho scoperto della loro esistenza. Ero in gita in Val di Sole con un gruppo di bambini disabili. Siamo entrati in una chiesa e ho aperto un libro dal titolo Bambini come gli altri . Parlava dei piccoli malati di tumore. È stato allora che ho deciso. Prima pensavo di andare in Africa, ma in quel preciso momento ho capito che la mia Africa erano quei bambini. All’inizio non è stato facile, avevo paura di toccarli, pensavo quasi che si potessero rompere. Allora ho chiesto al primario come comportarmi, se potevo dar loro una carezza, un bacio. E lui mi ha detto di farlo dopo aver chiesto ai genitori. Insomma mi ha dato istruzioni sui sentimenti». Ma non ci sono istruzioni per tenere a bada la sofferenza.
«La loro sofferenza è la mia sofferenza. Speravo che, negli anni a venire, le cose sarebbero cambiate ma non è stato così. La sofferenza cresce. Cresce anche con le maggiori responsabilità a livello professionale, perché ora c’è solo il Cielo sopra di noi e io continuo a tempestarlo di domande, di grida, di rabbia quando mi sento impotente. E ai genitori continuo a dire che qui i miracoli non si fanno. Ma noi ci speriamo». In questa speranza accade il miracolo. In quegli sguardi che si incrociano nelle stanze e nei corridoi: quelli pieni di attesa da parte dei piccoli e quelli pieni di amore dei genitori e di chi li cura e che ogni giorno sono chiamati a vincere la tristezza con la speranza di una vita finalmente libera dal male. Perché se la sofferenza resta un mistero, non è un mistero che richieda da parte di chi è coinvolto di crescere nel bene e nel voler bene.
Certo è uno sguardo che deve avere il coraggio di guardare oltre, di tener sempre presente che il nostro essere sulla terra è un passaggio. Di questo passaggio si legge sul Grande Albero dei Fiori dove ogni fiore di carta accoglie il pensiero di un bimbo: «Sono Gianluca e ho dodici anni. Oggi finisco le cure. Il mio grande desiderio è che tutti i miei amici concludano in fretta le cure per tornare a giocare». «Grazie per aver trasformato questo reparto in una casa con tante mamme e tanti papà e aver reso bella una permanenza così triste».
«Ieri – racconta Maura Massimino – ho chiesto ad un bambino di quattro anni e mezzo di salutarmi Babbo Natale perché non l’ho mai visto. Ma l’ho detto dopo avergli annunciato la necessità di ripetere la radioterapia perché la “pallina” non era abbastanza piccola come speravamo. Mi ha risposto: “Sai una cosa? Non so se avrò abbastanza coraggio”. Penso che parlasse di entrambe le cose: dire un ciao a san Nicola e affrontare le terapie. Ci vuole coraggio per aspettare Natale da queste parti, quasi uguale a quello che occorre per farsi curare».