L'arcivescovo Paolo Pezzi in una foto d'archivio - Ansa
Nella storia recente, forse mai come in questi giorni il Natale è stato un richiamo alla sobrietà, alla moderazione. Il Covid con il suo bagaglio di sofferenza e solitudine spinge alla riflessione, invita a prendersi tempo, chiede di allargare davvero il cuore a chi sta male o è in difficoltà. Che poi questo si sia tradotto in un recupero del significato più vero della festa, è tutto da dimostrare.
«Penso che la circostanza critica della pandemia non abbia tanto portato a un Natale meno consumistico, quanto ci abbia messo di fronte a ciò che è essenziale – osserva monsignor Paolo Pezzi 60 anni, dal 2007 arcivescovo di Mosca, diocesi intitolata alla Madre di Dio –. Se essenziale è rimasto per noi l’usa e getta, allora anche il 25 dicembre sarà stato consumistico, forse un po’ meno, o in modo diverso, ma comunque consumistico. Se essenziale è stato il recupero della propria umanità, del senso della vita, della malattia, della sofferenza, della morte, allora il Natale ci avrà riportato uno stupore per averlo riscoperto».
Per i cattolici che vivono in Russia il Natale ha un andamento particolare. C’è la solennità del 25 dicembre naturalmente, ma anche una grande attenzione al cammino della Chiesa ortodossa che, seguendo il calendario giuliano, festeggia la nascita di Gesù il 7 gennaio.
«Sì, siamo e dobbiamo essere ecumenicamente aperti – spiega monsignor Pezzi –. Questa apertura fraterna si mostra per esempio nell’accogliere l’invito del patriarca della Chiesa ortodossa russa a presenziare alla sua celebrazione del Natale il 6 gennaio notte. Normalmente partecipa anche il nunzio apostolico. Inoltre nel mese di gennaio si svolgono le Conferenze ortodosse di Natale, a cui partecipano le gerarchie e i fedeli da tutta la Russia. Alcune tavole rotonde su temi di attualità religiosa e sociale hanno prodotto un impulso ecumenico. Infine in gennaio si svolge la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Questa iniziativa può aiutarci a fare dei passi significativi verso la piena comunione. L’importante è non essere formali nel partecipare. Molto può la preghiera».
«La pandemia ha favorito la cultura della divisione e del sospetto»
Cosa significa vivere il Natale in un Paese a maggioranza cristiana, dove però il cattolicesimo è minoritario?
Anni fa, “giovane” sacerdote in Siberia, mi capitò di celebrare il Natale in un villaggio. Il parroco mi chiese di portare la comunione a una “babushka”, un’anziana. Era un giorno freddo, sotto i meno trenta, e il parroco si raccomandò che non mi perdessi nella leggera bufera che spirava. Arrivai alla casa della “babushka”, che mi accolse con una gioia che mi commosse. Entrai nella piccola isba, la confessai e la comunicai. Ecco, il Natale era tutto lì, un fedele e come pranzo di Natale un brodo con le patate, quella vecchietta mi aveva dato ciò che aveva di più caro. Negli anni le condizioni sono cambiate, ora celebro il Natale in una cattedrale a Mosca, ma la questione essenziale resta la stessa: quello che noi possiamo portare qui è lo stupore dei pastori, anch’essi una minoranza e non sempre benvoluta nella terra di Gesù.
La Cattedrale dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, a Mosca - Archivio Avvenire
La Chiesa ortodossa russa partecipa al Natale cattolico? Si fa presente alla celebrazione del Natale cattolico con gli auguri calorosi del patriarca, e di molti altri vescovi e sacerdoti. Inoltre fedeli ortodossi sono presenti alle nostre celebrazioni del Natale.
Dopo tanti morti e paura l’Europa, il mondo intero, guardano con logica speranza ai vaccini. C’è però una parte di popolazione che manifesta dubbi e perplessità sull’opportunità di sottoporsi a questo tipo di prevenzione. Quale atteggiamento, a suo modo di vedere, deve assumere il credente?
La Commissione vaticana Covid-19 in collaborazione con la Pontificia Accademia per la vita ha appena diramato la Nota “Vaccino per tutti. 20 punti per un mondo più giusto e sano”’ alla quale rimando, in quanto la ritengo utile e sufficientemente esaustiva al riguardo. Vorrei però aggiungere qualcosa. L’atmosfera di un certo nichilismo, che vedo diffondersi anche qui finisce col porre una sfiducia alla speranza, e alimenta una sfiducia nei rapporti. La pandemia ha accelerato la trasformazione dei rapporti, ha cambiato il modo in cui vengono usati i social, per cui tende a diffondersi una cultura della divisione, una cultura dell’insultare l’altro. Con la conseguenza della paura dei rapporti, come avveniva qui cent’anni fa durante il terrore si instaura un clima di sospetto. In tutto questo penso che i credenti debbano dare il proprio contributo per sostenere la speranza degli uomini.
«L’apertura fraterna si mostra per esempio nell’accogliere
Lei ha dovuto fare i conti personalmente con il Covid. Cosa le ha insegnato maggiormente la malattia?
Innanzitutto devo dire che sono stato toccato dalla malattia in modo leggero, mentre molti sacerdoti, religiosi e laici in diocesi sono stati colpiti più pesantemente, abbiamo avuto in questa seconda ondata anche diverse vittime, tra cui un sacerdote. Ho imparato ad affidarmi più coscientemente nelle mani di Dio. La preghiera e la celebrazione della Santa Messa hanno guadagnato in intensità e perso in abitudine. La malattia mi ha fatto sentire più vicini gli ammalati, ricordarli nella mia preghiera. Ho imparato ad essere più grato per ciò che mi viene dato, per la vita, per la vocazione, e ad essere più gratuito nel mio agire. Quello che vorrei comunicare a chi ancora si trova in balia della malattia o delle sue conseguenze, è di stare attaccati ai rapporti che maggiormente li aiutano: quello che io ho imparato l’ho imparato da questi rapporti con Dio, con me stesso - oh, quanto è difficile a volte amarsi veramente, accettarsi veramente con tenerezza! -, con alcuni amici.
Siamo entrati in un nuovo anno. Cosa augura e si augura per il 2021?
Auguro a tutti e a me di riscoprire un senso e un gusto nella vita, di trovare sempre le forze spirituali di ricominciare; di non cadere nella logica nichilista e disfattista del non attendere più nulla. Dio nella Sua infinita misericordia ci dona il tempo per essere uomini cercatori di felicità.
Natale cattolico e ortodosso: il diverso calcolo dei giorni
La Chiesa ortodossa russa così come altre comunità cristiane d’Oriente celebrano il Natale non il 25 dicembre bensì il 7 gennaio. Il motivo è legato al “calendario”. Nel 1582 infatti papa Gregorio XIII stabilì di sostituire quello introdotto da Giulio Cesare nel 45 a.C. e denominato in suo onore “giuliano”. Il nuovo calcolo dei giorni permetteva infatti una maggiore fedeltà alla durata dell’anno solare, correggendo i ritardi dovuti al sistema precedente. In particolare tra il 325 quando il Concilio di Nicea indicò come stabilire la data della Pasqua e il 1582 si erano “perduti” circa 10 giorni. Di qui la decisione di far seguire al 4 ottobre 1582 non il 5 bensì il 15 ottobre, forzatamente un venerdì perché il giorno antecedente al 4 era stato un giovedì. Da quel momento dunque il calcolo delle date risulta diverso a seconda che si segua il calendario giuliano o quello gregoriano. Con un paradosso si potrebbe dire che i cristiani d’Oriente e di Occidente celebrano il Natale lo stesso giorno ma in giorni diversi.