Il cardinale argentino Jorge Maria Mejia, 87 anni – ben portati – da festeggiare tra pochi giorni, è una memoria vivente del dialogo tra Chiesa cattolica ed ebraismo. Dal 1977 per nove anni è stato segretario della Com-missione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Ora continua a presiedere la delegazione vaticana della Commissione mista per il dialogo ebraico-cattolico che avrà il suo incontro proprio in corrispondenza della visita di Benedetto XVI nella Sinagoga di Roma. In questa veste Mejia partecipa all’evento odierno, dopo essere stato tra i protagonisti nell’organizzazione della storica visita di Giovanni Paolo II nel 1986.
Eminenza, come si arrivò a quell’evento? Era il gennaio del 1986 e venni invitato ad un pranzo di lavoro con il Pontefice assieme ai vertici della segreteria di Stato. Si parlava di un futuro viaggio negli Stati Uniti e sinceramente non capivo perché ero stato convocato. Fino a quando venne introdotta una questione sollevata dall’arcivescovo di Los Angeles, se cioè si poteva prevedere una visita nella Sinagoga di quella metropoli. Il Papa chiese il mio parere, e dissi che se il vescovo di Roma doveva visitare una Sinagoga forse era meglio iniziare con quella della sua città. Giovanni Paolo II approvò subito l’idea e mi chiese se era realizzabile. Per un attimo mi morsi la lingua, ma poi risposi che dovevo chiedere al rabbino capo Toaff. Il Papa mi chiese di farlo.
Come andò? Lo andai a trovare e calibrando bene le parole espressi il desiderio del Papa. Toaff mi rispose subito in ebraico con un versetto del Salmo 117: « Baruch Haba B’Shem Adonai » e cioè « Benedetto colui che viene nel nome del Signore » . Mi si aprì il cuore. Ma immediatamente aggiunse che doveva sentire il parere del Consiglio. La risposta fu positiva e da parte ebraica si chiese che la visita avvenisse il 13 aprile pomeriggio. Nella mattinata di quella domenica era stata già fissata una cerimonia di canonizzazione e Giovanni Paolo II non amava concentrare nello stesso giorno due appuntamenti importanti. Ma quella volta accettò.
Il Papa comunque aveva già avuto modo di incontrare Toaff… Sì, era accaduto nel febbraio 1981. Il rabbino capo aveva espresso il desiderio di incontrare Giovanni Paolo II anche per manifestare la sua solidarietà e sintonia col Papa proprio nel periodo in cui in Italia si discuteva animatamente sulla questione dell’aborto in vista del referendum. L’occasione si presentò nel corso della visita alla parrocchia di San Carlo ai Catinari, vicino al Ghetto. L’incontro avvenne in sacrestia, con una discrezione richiesta da ambo le parti.
Cosa pensa delle polemiche che hanno accompagnato questa visita? Benedetto XVI è tedesco e i tedeschi suscitano sempre, per così dire, un interrogativo da parte ebraica. Ma i gesti di questo Papa, la visita alle Sinagoghe di Colonia e New York, la visita ad Auschwitz, hanno cancellato questo interrogativo. D’altra parte ricordo che anche con Giovanni Paolo II non mancavano difficoltà. Durante il mio mandato alla Commissione mi sentivo continuamente dire che la Santa Sede non riconosceva lo stato d’Israele per un pregiudizio contrario alla sua stessa esistenza. Non era affatto così. Poi ci fu l’episodio del Carmelo di Auschwitz e anche questo venne risolto.
E la questione Pio XII? Nel mondo ebraico ci sono settori favorevoli. Penso agli esponenti della Fondazione « Pave the Way». E poi ricordo bene di aver visto con i miei occhi gli ebrei che nel dopoguerra venivano in piazza San Pietro per ringraziare Pio XII. All’epoca ero studente alla Gregoriana e all’Angelicum e proprio in quegli ambienti, in pieno pontificato «pacelliano», crebbe il mio interesse per l’ebraismo. Riguardo poi alle polemiche sugli Archivi vaticani ritengo che siano pretestuose. E lo dico da archivista e bibliotecario emerito di Santa Romana Chiesa. Anche perché quando saranno interamente accessibili per il pontificato pacelliano, ci sarà sempre qualcuno a dire che il Vaticano continua a nascondere qualcosa...