Papa Francesco con il vescovo eletto Enrique Martínez Ossola
«Quando sono arrivato dal nunzio, a Buenos Aires, gli ho detto: “Per far venire un prete da La Rioja, a quasi mille chilometri di distanza, ci sono solo due ragioni: o l’ha fatta grossa o è stato nominato vescovo. In quale dei casi rientro?”». Come al solito, la butta sullo scherzo padre Enrique Martínez Ossola. Eppure non nasconde una certa felice apprensione per la decisione con cui il 19 giugno scorso papa Francesco lo ha nominato vescovo ausiliare di Santiago del Estero. «Sento la grande responsabilità. Vivo la nomina come un servizio alla Chiesa e un dono. Immeritato per quanto riguarda la mia persona – racconta ad Avvenire –. Credo, tuttavia, di essere stato scelto in quanto rappresentante di una diocesi profetica. Quella Rioja del vescovo Enrique Angelelli, massacrato dalla dittatura a causa del suo impegno in favore dei dimenticati, con il quale ho collaborato da giovane. So che padre Jorge lo stimava molto».
“Padre Jorge”: quando è sovrappensiero, Martínez continua a chiamare così Bergoglio. Proprio come ha fatto per oltre tre decenni. Fin da quell’inverno – australe – del 1975. Quando, a luglio, monsignor Angelelli accompagnò nella capitale tre seminaristi: Miguel La Civita, Carlos González e Quique, come tuttora ama farsi chiamare il futuro vescovo. La ragione ufficiale era quella di fargli completare gli studi in un centro di eccellenza come il Colegio Máximo di San Miguel. Il motivo reale, però, era la necessità di allontanare i ragazzi dalla persecuzione. Angelelli sapeva di essere nel mirino dei militari e non voleva che i suoi collaboratori ci andassero di mezzo. Decise, pertanto, di affidarli a qualcuno di cui si fidava: l’allora provinciale dei gesuiti, Jorge Mario Bergoglio appunto.
«Ricordo la prima volta che lo vedemmo. Non sapevamo chi fosse e ci presentammo. Fui io a doman- dargli: “E tu dove stai?”. “Un po’ qui e un po’ lì”, rispose. E io: “Che cosa si deve fare per avere una simile fortuna?”. “Il padre provinciale”. Balbettando iniziai a scusarmi dandogli del lei. Mi interruppe: “Per voi sono solo padre Jorge. Presto celebreremo la Messa dietro un medesimo altare e là non ci sono differenze” ».
Fu un periodo difficile per il futuro padre Quique e gli altri riojani: nei mesi successivi il pugno di ferro del regime si abbatté sulla Chiesa più vicina ai poveri. Nel 1976 furono uccisi i tre religiosi pallottini della comunità di San Patricio, insieme ai seminaristi Salvador Berbeito e Emilio Barletti, studente al Máximo. Poi toccò ai sacerdoti riojani Carlos de Dios Murias, Gabriel Longueville e il laico Wenceslao Pedernera. Infine a monsignor Angelelli. Quando accadde, il 4 agosto, Bergoglio non era al Colegio.
«Appena rientrato venne da noi. Piangemmo insieme. Lui ci fece forza. Da quel momento ci prese sotto la sua protezione. Non voleva che ci accadesse nulla. Ci raccomandò di uscire sempre insieme e mai dopo il tramonto: sarebbe stato più difficile, così, farci scomparire». I ragazzi si trovarono, dunque, a trascorrere molto tempo chiusi al Máximo. Si resero, così, conto – come racconta Nello Scavo ne La lista di Bergoglio (Emi) e I sommersi e i salvati (Piemme) – dello strano movimento di improbabili ospiti giunti per un ritiro spirituale e poi rimasti mesi. O spariti come misteriosamente erano arrivati. «Non ci mettemmo molto a capire che padre Jorge dava rifugio ai perseguitati della dittatura e li aiutava a fuggire. Ha protetto tanti. Lo so perché lo ha fatto con noi».
Pur in mezzo alla forte tensione, padre Jorge non perdeva il buon umore. «La sua era l’unica tv del Máximo in cui si vedeva il calcio. Noi ragazzi, dunque, ci riunivamo là e, con la scusa del pallone, chiacchieravamo, ridevamo, trascorrevamo delle belle serate. Lui aveva questo: riusciva a conservare la serenità e a contagiarla agli altri. Quarantadue anni dopo, non è cambiato».