Provocazioni e menzogne, orchestrate secondo regole risapute utilizzate dai totalitarismi e dagli imbonitori di vario colore.
Questa è la campagna contro la Chiesa accusata falsamente di evadere l’Ici, nella speranza di renderla odiosa alla gente, sottrarle simpatie e oscurare il bene, a vantaggio di tutti, che opera oggi come e più di ieri. Ma sono cose note.
Adesso che molti, mossi dall’esasperazione, giungono perfino a esporre le ricevute delle imposte, regolarmente pagate, una riflessione è opportuna: anche dal male i cristiani possono ricavare un insegnamento positivo. In questo caso, le lezioni di cui fare tesoro sono almeno due. Nessuna delle quali peraltro nuova.
La prima: il denaro, che la Chiesa riceve e restituisce moltiplicato, non è un capitolo a parte, secondario e accessorio, rispetto all’annuncio del Vangelo, ma ne è parte integrante. Il denaro: il suo reperimento, la sua amministrazione. In teoria tutto è chiarissimo. Il documento della Cei
Sovvenire alle necessità della Chiesa
(1988) lo dimostra attingendo alle Scritture, al Concilio, al Codice di diritto canonico («Quello del reperimento e dell’amministrazione delle risorse economiche non è un aspetto isolato nel più vasto quadro ecclesiale; anche nella Chiesa ogni profilo dell’esperienza comunitaria è intrecciato strettamente a tutti gli altri»,18). Non bisogna avere paura di parlarne. E un eventuale pudore, in parte comprensibile, oggi diventa un 'lusso' che rischia di ritorcersi contro chi ne restasse prigioniero. Non è una virtù, certo non in questi tempi.
Ed ecco la seconda e più importante lezione.
Un valore evangelico decisivo, affinché chi annuncia il Vangelo sia credibile, e quindi credibile sia il Vangelo stesso, è la trasparenza. Nulla va nascosto, tutto va reso visibile.
Ma pure questo era detto a chiare lettere 23 anni fa: «Anche per noi (il documento si sta rivolgendo a preti e vescovi,
ndr)
deve valere quella correttezza e quella trasparenza che vorremmo fossero sempre di più tratti caratteristici di un’amministrazione ecclesiastica credibile» (22). Tra i tanti «doveri» elencati, uno spicca per la sua radicalità: «Deve essere richiamato con forza il dovere di ciascun prete e di ciascun vescovo (...) di fare testamento (...) evitando così che i beni derivanti dal ministero, cioè dalla Chiesa, finiscano ai parenti per successione di legge». È un gesto concreto di estrema povertà e trasparenza nei confronti dei fedeli: ciò che mi affidate non è mio, io non possiedo nulla ma tutto appartiene alla Chiesa a cui tutti noi apparteniamo.
Un altro documento della Cei,
Sostenere la Chiesa per servire tutti,
20 anni dopo dedica un paragrafo apposito all’«obiettivo della trasparenza »: «Amministrare i beni della Chiesa esige chiarezza e trasparenza. Ai fedeli che contribuiscono con le loro offerte, agli italiani che firmano per l’otto per mille, alle autorità dello Stato e all’opinione pubblica abbiamo reso conto in questi anni – scrivono i vescovi italiani – di come la Chiesa ha utilizzato le risorse economiche che le sono state affidate. Siamo fermamente intenzionati a continuare su questa linea», sapendo però che «dobbiamo ancora crescere: ogni comunità parrocchiale ha diritto di conoscere il suo bilancio contabile, per rendersi conto di come sono state destinate le risorse disponibili e di quali siano le necessità concrete della parrocchia » (10). L’obiezione è frequente: pubblicare un bilancio è difficile, farlo in modo che tutti capiscano è difficilissimo. Non tutti i parroci sono dei provetti contabili... Obiezione (cortesemente) respinta. Già
Sovvenire,
nel 1988, precisava: «Tutti i fedeli, ma specialmente i laici, sono chiamati a mettere a disposizione la loro competenza e il loro senso ecclesiale collaborando disinteressatamente ai diversi livelli dell’amministrazione ecclesiastica». Il Consiglio parrocchiale per gli affari economici serve appunto a questo. Ogni parrocchia ha un contabile, un bancario, un amministratore competente, a cui il parroco può affidarsi.
La trasparenza, a tutti i livelli, è sempre stata richiamata come una necessità. Oggi inderogabile.