venerdì 27 dicembre 2024
Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: «Drammatico il numero dei suicidi dei detenuti e degli agenti penitenziari. Il carcere deve essere luogo di speranza, non di morte»
Fabio Pinelli

Fabio Pinelli - .

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«Auspico che le forze politiche, tutte insieme, possano dare dimostrazione di un momento di dialogo e dare speranza specialmente alle persone che si sono macchiate di delitti non gravi perché come ci ha ricordato papa Francesco - la speranza non delude mai».

La proposta che avanza il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, avvocato, (nella foto, ieri davanti alla Porta santa di Rebibbia) è quella di «ragionare, tutti insieme, sulla possibilità di “un indulto parziale”, ovviamente che non riguardi i delitti di criminalità organizzata, per affrontare l’emergenza nazionale di un sovraffollamento carcerario di oltre 11mila detenuti sulla capienza prevista e che incide sul rispetto della dignità delle persone e sulle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria. Come dice il presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, la dignità non si compra per merito e non si perde per demerito».

Quanto influisce l’emozione di aver partecipato, a inizio Giubileo, a quest momento emozionante, a Rebibbia, con papa Francesco?

Emozione è la parola giusta. Per una volta le istituzioni, i detenuti, la polizia penitenziaria sono riusciti a “fare comunità”, insieme al Papa. Facendo passare il messaggio che il carcere non è un mondo separato, ma una realtà di cui ci si deve occupare. Al di là dell’emozione, la riflessione che mi permetto di proporre è tutt’altro che emotiva.

Un filo logico lega le parole del Papa, il diritto penale più avanzato e la Costituzione.

Ed è su quello che bisogna lavorare. Come diceva il Papa in occasione dell’udienza ai partecipanti al Congresso Mondiale dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale occorre contenere l’irrazionalità punitiva, perché la pena non può mai essere vendetta e al compimento di un male non si deve mai replicare infliggendo un altro male.

Lei però ha detto che «per una volta» si è registrato questo clima di “comunità” a Rebibbia. Normalmente non è così. Che fare?

La società deve riallacciare i rapporti con il reo. Il carcere non può essere una ulteriore scuola del crimine, ma deve contenere un percorso rieducativo come vuole la Costituzione, e un percorso di risocializzazione. In ogni caso bisogna uscire da una visione carcerocentrica.

Con quali misure?

La prima cosa da mettere a tema è il ruolo stesso del diritto penale che, una moderna liberal democrazia del 21esimo secolo, andrebbe ripensato profondamente. I tribunali non possono risolvere ogni conflitto che sorge nella società. Va ripensato anche il rapporto tra sanzioni pecuniarie e sanzioni detentive.

Non si rischia una depenalizzazione per “censo”. Evita la galera solo chi può pagare?

L’entità della pena andrebbe naturalmente commisurata alla capacità retributiva. Vi sono una serie di delitti colposi che sono ancora nel circuito penale, pur essendo il tema sostanzialmente risarcitorio. Questo comporta l’aumento dei tempi dei processi anche per reati più gravi. Così dilatando indirettamente anche i tempi di carcerazione preventiva.

In gran numero, i detenuti in attesa di giudizio sono in carcere da presunti innocenti.

La pena dovrebbe sempre seguire l’accertamento della responsabilità oltre il terzo grado di giudizio. Non è tollerabile la tendenza a trattare la custodia cautelare come un anticipo della pena.

E la giustizia riparativa?

Può avere un ruolo fondamentale, come già avviene in altri Paesi europei. La sanzione pecuniaria, unitamente al risarcimento del danno, è considerata una valida risposta per i delitti colposi.

Ma per umanizzare la giustizia, e favorire le misure alternative, occorrono investimenti.

Per prima cosa bisogna investire sulle risorse umane: educatori, magistrati di sorveglianza e anche le associazioni di volontariato e terzo settore. E contestualmente, compiere una riflessione di politica giudiziaria più ampia, di largo respiro.

Gli 88 suicidi in carcere quest’anno sono la spia di un malessere enorme.

È un dato drammatico. Ma ci sono anche 6 agenti che si sono tolti la vita, a dimostrazione che il carcere oggi è un luogo drammatico, per tutti. Ci sono poi 243 persone morte in carcere, e questo non dovrebbe mai accadere. Si dovrebbe morire a casa o in ospedale, con l’affetto dei propri cari. Il carcere non può essere mai un luogo di morte, ma di speranza di una vita migliore, nel rispetto della legalità.

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