Benedetto XVI durante il viaggio in Terra Santa nel 2009 - Ansa
Se una qualità rav Alfonso Arbib riconosce a Joseph Ratzinger, questa è la chiarezza. Un aspetto di personalità in larga parte dovuto alla sua profondità intellettuale che ha reso Benedetto XVI un uomo libero. Anche di prendere decisioni impopolari. «É stato – osserva il rabbino capo di Milano e presidente dell’Assemblea rabbinica italiana – soprattutto uno studioso, in particolare un grande conoscitore, un appassionato ai testi. Poi nonostante apparisse un conservatore, in alcuni casi è stato un innovatore. Nel rapporto con l’ebraismo disse delle cose molto chiare».
A che cosa si riferisce in particolare?
Durante la visita al Tempio di Roma nel 2010 affermò in maniera molto forte che le promesse divine sono eterne, «irrevocabili», punto questo estremamente preciso contro la teologia della sostituzione (che considera la Chiesa cattolica come “nuovo Israele” ndr). Non ricordo altri interventi altrettanto forti. Ma fu chiaro anche in relazione al rapporto con lo Stato d’Israele, questione come si sa sempre piuttosto complicata e complessa per la Chiesa cattolica, che inizialmente vi si oppose in maniera netta. Sul tema Benedetto XVI sottolineò che per un cristiano non dovrebbe essere problematico riconoscere nella «creazione dello Stato di Israele la lealtà di Dio verso Israele, rivelatasi in modo misterioso». Vedere nella creazione dello Stato ebraico qualcosa di provvidenziale credo fosse una novità.
Tuttavia durante il pontificato di Ratzinger non sono mancati gli attriti, le incomprensioni. Penso in particolare alla reazione negativa contro la preghiera per gli ebrei del Venerdì Santo nella Messa in latino.
Assolutamente sì, ci furono contrasti forti. La preghiera del Venerdì Santo toccò un nervo scoperto, e cioè se la Chiesa cattolica cerca ancora o no la conversione degli ebrei. Poi ci furono delle correzioni, con soluzioni di compromesso ma il momento fu pesante, molto difficile. L’allora presidente dell’Assemblea rabbinica rav Laras reagì in maniera molto netta. Si arrivò alla sospensione del dialogo. Ma ci furono anche altri momenti complicati.
Si riferisce alla revoca delle scomunica a quattro vescovi lefebvriani, immagino. Nel 2009.
Uno di loro, Williamson, come noto era “negazionista”. Il Papa ammise lo sbaglio e parlò di una svista. Fu un errore pesante ma probabilmente si trattò davvero di un malinteso. L’altro elemento riguarda la discussione un po’ eterna sulla figura di Pio XII.
Malgrado questi problemi si può dire che Benedetto XVI abbia lavorato molto per il dialogo.
In assoluto credo ne sia stato un promotore sincero. Pur con le sue rigidità, legate anche al fatto di essere, come dicevo prima, uno studioso.
Il suo dialogo con l’ebraismo è proseguito anche dopo la rinuncia al pontificato. Penso in particolare alla corrispondenza epistolare tra Benedetto XVI e il rabbino capo di Vienna, Arie Folger, che nel 2019 confluì nel Libro “Ebrei e cristiani”.
Sì, lui ha continuato nel suo impegno di relazione e il confronto con rav Folger è stato davvero interessante.
Rav Arbib, in definitiva quale eredità lascia a suo modo di vedere Joseph Ratzinger sul terreno delle relazioni tra cattolicesimo ed ebraismo?
Uno dei problemi del dialogo è la tendenza alla banalizzazione: pensiamo e diciamo tutti le stesse cose, abbiamo una specie di religione universale in cui è facile ritrovarsi perché non si parla dei problemi. Credo che questo sia profondamente sbagliato. Per dialogare bisogna invece conoscere con chiarezza le differenze. Credo che Ratzinger avesse molto ben presente la necessità di valorizzare le diversità.