domenica 16 settembre 2012
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Il "modello libanese" come moto­re di sviluppo. Ma, è la domanda, in che modo lo è? E, soprattutto, è un modello esportabile? Le parole di Benedetto XVI sul Paese «modello di convivenza» interrogano e sollecitano monsignor Paul Sayah.«Innanzitutto – spiega il vicario del pa­triarcato maronita di Bkerké – il Liba­no è l’unico Paese del Medio Oriente in cui cristiani e musulmani abbiano raggiunto, era il 1943, un accordo sul governo del Paese. In base a questo, ciascuna delle due comunità ha la re­sponsabilità di metà dell’amministra- zione del Paese. Inoltre questo è l’u­nico Paese del Medio Oriente in cui c’è una separazione effettiva tra reli­gione e Stato. Questa 'unicità' del Li­bano, pertanto, questa ragione sim­bolica, soprattutto in questo mo­mento di grandi cambiamenti, riten­go sia alla fine il motivo per cui il Pa­pa è venuto». In questo senso, anche l’accoglienza riservata al Papa da parte dei musul­mani è significativa. Certamente. È stata prima un’attesa, e poi un’accoglienza, molto calorosa, perché hanno capito che il Papa vie­ne per tutti. Non c’è stato un momen­to, nonostante quello che si è detto a causa della situazione, in cui la visita è stata in discussione. Il Papa è un uo­mo di pace, viene a portare speranza, e loro come tutti anelano alla pace. Ci sono state anche qui alcune proteste, è vero, ma in una democrazia è nor­male, dirai anche salutare, che possa esserci qualche voce dissonante. Lei ha parlato della 'unicità' del Li­bano. In che modo si esprime, con­cretamente, questa unicità, e in che misura è stata ed è un motore di cre­scita per il Paese? In base agli accordi di cui ho detto, c’è una tensione costante all’equilibrio che si esprime in tutte le cose. Se vo­gliamo costruire una nuova chiesa, il permesso viene dato quando c’è la possibilità di costruire una nuova mo­schea; questo vale per tutto, anche per l’apertura di una scuola, o di un’uni­versità, di una qualunque istituzione. Questo automaticamente significa un arricchimento per tutta la società nel suo insieme, perché vuol dire che in questo modo si creano più occasioni per tutti i cittadini, senza esclusioni. Però c’è chi dice, oggi, che questo e­quilibrio 50-50 non è più attuale, vi­sto che le due comunità non sono più numericamente allo stesso livello. È vero, oggi da qualche parte il princi­pio viene contestato. La presenza cri­stiana negli ultimi decenni s’è ridotta, oggi rappresenta forse il quaranta per cento contro il sessanta, e s’è ridotta un po’ per l’esodo dei cristiani duran­te la guerra civile, un po’ per questio­ni meramente demografiche. Tutta­via questo, a parte le poche eccezio­ni sollevate da qualche parte, no por­ta mettere in discussione il principio del bilanciamento perfetto, e i primi a non volerlo alterare sono gli stessi musulmani perché si sono resi con­to, come dicevo poco fa, che proprio questo principio ha garantito ed è ga­ranzia della democrazia e dello svi­luppo del Paese.Ma è, per così dire, un modello e­sportabile? La chiave di tutto è il dialogo. Costan­te. Finché si riesce a parlare, a con­frontarsi, tutto è possibile. Noi l’ab­biamo imparato, purtroppo, sulla no­stra pelle, e sappiamo che la violenza non porta da nessuna parte. Oggi ve­diamo questa primavera araba - io preferisco parlare di 'risveglio' - e non sappiamo che cosa accadrà, il nostro augurio e la nostra speranza è che por­ti a una vera democrazia; vediamo quello che è successo in Iraq, a quella tragedia, e vediamo che cosa pur­troppo sta succedendo in Siria, e co­nosciamo per esperienza che tanta violenza non ha altro sbocco che nuo­va violenza, prima o poi comunque ci si dovrà sedere attorno a un tavolo e parlare. Invece che rifornire di armi i ribelli, i Paesi occidentali dovrebbero lavorare in questa direzione.
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