«Questa beatificazione è un segno di speranza per tutta la Chiesa d’Oriente in queste difficili circostanze in cui vediamo ripetersi i massacri e riprendersi la persecuzione». Lo ha detto ieri in una conferenza stampa tenutasi a Beirut
padre Habib Mourad, capo ufficio stampa del patriarcato dei siro-cattolico di Antiochia, in occasione della beatificazione – che avrà luogo stasera nella capitale libanese – del servo di Dio Flaviano Michele Melki, vescovo e martire in Turchia. Nato nel 1858 a Qalaat Mara, nell’attuale sudest della Turchia, Flaviano Michele – al secolo Giacomo – entrò nella Fraternità di Sant’Efrem e fu ordinato vescovo di Djezireh dei Siri all’età di 55 anni proprio a Beirut. Due anni dopo, in piena prima Guerra mondiale e persecuzione ottomana dei cristiani in quella regione, rifiutò di abbandonare la propria sede («Do la vita per le mie pecore», diceva). Fu arrestato, torturato e fucilato “in odio alla fede” esattamente un secolo fa, il 29 agosto 1915, e il suo corpo gettato nel fiume Tigri. A presiedere il rito di stasera sarà il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, che solo venti giorni fa ha ricevuto da papa Francesco l’autorizzazione a promulgare il decreto riguardante il riconoscimento del martirio del nuovo beato. All’evento parteciperanno, accanto al patriarca Ignazio Youssef III Younan e ai vescovi della Chiesa sirocattolica, tutti i patriarchi delle Chiese orientali e migliaia di fedeli siriaci e caldei, molti dei quali giunti dai Paesi della diaspora. Per molti di loro, l’esempio di Melki assomiglia a tante storie di massacri e peregrinazioni che si sono sentiti raccontare, magari decine di volte, dai nonni e genitori. E che migliaia di cristiani siriani e iracheni stanno oggi vivendo. Tra il 1915 e il 1920, un vero e proprio flagello si è abbattuto sulla regione in cui è nato e morto il nuovo beato (basta ricordare i nomi di Tur Abdin, Mardin, il monastero dello zafferano e lo Hakkari) proprio mentre poco più a nord si consumava un altro genocidio ai danni degli armeni. Si stima, infatti, il numero delle vittime siriache e assiro-caldee tra i 250mila e i 750mila, massacrati dalle truppe ottomane nella totale indifferenza mondiale. La memoria collettiva conserva ancora raccapriccianti racconti su intere comunità passate a fil di spada dai soldati turchi oppure rinchiuse nella chiesa del villaggio prima di darla alle fiamme, tanto che l’anno 1915 viene chiamato “Shato d’sayfo”, l’Anno della spada. Un ricordo che gli eventi odierni non aiutano a cancellare. Un esempio tra i tanti: per il terzo anno consecutivo, ieri non è stato possibile celebrare la festa di Mar Musa al-Habashi (san Mosè l’Abissino) cui è dedicato il monastero restaurato da padre Paolo Dall’Oglio a Nabak, in Siria.
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