«Siate testimoni di misericordia. Gli uomini di tutto il mondo implorano la misericordia di Dio». Con i mille sacerdoti venuti ad Ars da tutti i Paesi in occasione del ritiro dell’anno sacerdotale, il cardinale Christoph Schönborn sceglie le parole di Giovanni Paolo II, pronunciate in Polonia nel 2002. Parole forti, quasi, dice Schönborn, «un testamento» lasciato ai sacerdoti. Parole che scuotono nella basilica di Ars questa schiera di preti – bianchi, neri, vietnamiti, indiani, o venuti fin qui da lontane isole del Pacifico – che nel piccolo Paese francese meditano su «La gioia di essere preti». Un titolo controcorrente, nello scenario di crisi delle vocazioni e secolarizzazione che il sacerdozio affronta almeno in Europa. Scenario che l’arcivescovo di Vienna non nasconde: «Ci sono diocesi in questa Francia – dice – in cui il sacerdote più giovane è il vescovo». Eppure. Eppure ad Ars, nella memoria del santo curato che dell’anno sacerdotale è il centro, sono ben visibili un fermento e una vitalità che meravigliano l’osservatore. Sono i sei preti cinesi, giovanissimi, che ti dicono delle speranze per la loro Chiesa; sono i monaci ragazzi che la mattina presto camminano per le strade col breviario aperto in mano. Schönborn parla come a dei fratelli. Concede anche ricordi personali, quasi delle confessioni. Come quando, per dire della essenzialità della preghiera, ricorda i suoi anni di giovane domenicano: «La crisi post conciliare fu per noi giovani preti, negli anni ’60, come un’onda di tsunami. Ci convincemmo che solo l’azione contava, per rinnovare la Chiesa. Io presi troppo alla lettera questa idea, e smisi di pregare. All’inizio mi parve un sollievo: l’Ufficio, prima del Concilio, era così lungo. Ma a poco a poco la vita religiosa mi parve perdere di senso, le cose spirituali impallidire. Dopo un anno, la mia vocazione vacillava. È stata, la crisi della preghiera, il dramma della mia generazione di preti. Quegli anni ora sono passati. Ma il sacerdote non deve mai perdere l’abitudine del pregare». «Lo so – continua Schönborn – dobbiamo tutti lottare col tempo, il tempo che manca, e che occorre trovare nella giornata. Ma pensate a quanto tempo ci tolgono la tv, e Internet; e quanto vuoto interiore alla fine ci lasciano. Guardate: piuttosto che stare ore da soli su un computer, facciamo una partita a carte con gli amici. Fa molto bene, è un bel modo di stare insieme », sorride il cardinale. Stare insieme, non essere soli. È un argomento su cui Schönborn torna. Esorta i sacerdoti ad avere degli amici con cui condividere le fatiche. « Una sfida del sacerdozio nel XXI secolo – dice – sarà, credo, ritrovare delle forme di vita in comune, o comunque di prossimità». Ma la solitudine non mina solo i preti. A Vienna «più della metà delle persone vive sola » . E ben sembra conoscere, l’arcivescovo, la grande solitudine della sua città: piena di vecchi e con così pochi bambini. Eppure. Eppure gli uomini hanno ancora bisogno dei preti. «Non cercano in noi dei manager, né dei grandi predicatori. Semplicemente, cercano degli uomini di Dio. Il curato d’Ars era un uomo semplice. Ma i suoi parrocchiani dicevano: bastava stargli accanto, per sentirsi uomini migliori». Già, il curato d’Ars, povero prete in un villaggio di 230 anime dopo la tempesta della Rivoluzione, All’alba in confessionale, per tutto il giorno tra la gente con la sua tonaca lisa. Testimone di misericordia. Schönborn ai mille, che ascoltano silenziosi: «Solo alla luce della misericordia di Dio possiamo guardare in faccia la nostra miseria. Se non c’è una percezione della misericordia di Dio, gli uomini non sopportano la verità. In un mondo senza misericordia tutti tendono ad autogiustificarsi, e ad accusare gli altri. E quando ci si accorge della nostra miseria, siamo tentati dello scoraggiamento e della disperazione». Al sacramento della misericordia, la confessione, il cardinale dedica un ampio insegnamento (ne scriviamo a parte, ndr ). Ma ai sacerdoti ricorda ancora il cuore del loro stesso ministero. «Senza l’Eucarestia, la nostra vita di sacerdoti mancherebbe del suo centro», dice. Quel sacrificio, esorta, da celebrare nel silenzio interiore. « Io stesso, lo confesso, spesso arrivo in sacrestia in ritardo, preso dai pensieri. Soffermiamoci a pregare almeno mentre vestiamo i paramenti. Come disse Gogol, «in quel momento il sacerdote indossa delle vesti, per distinguersi da se stesso». Per mostrare dunque d’essere, ora, « in persona Christi ». E, vi chiedo, lasciamo qualche istante di silenzio dopo la Comunione, nella Messa. Abbiamo cacciato il silenzio dalla liturgia. Quanto ne abbiamo invece bisogno». E Schönborn estrae un’altra immagine dai ricordi. «1961, avevo 16 anni. Andai con la parrocchia in pellegrinaggio a san Giovanni Rotondo. Mi sentivo estraneo a tanta pietà popolare, mi turbava la folla che alle quattro del mattino già gridava chiamando quel frate. Poi, lo vidi celebrare la Messa. Mai vista, prima e dopo di allora, una Messa così. Ho avuto l’impressione di vedere la realtà del sacrificio di Cristo; come se il velo del Sacramento fosse caduto. Poi, in sacrestia, a quel frate ho avuto il privilegio di baciare la mano». I mille ascoltano intensamente. Come un esercito rinnovato nella memoria della sua origine, e di ciò a cui è chiamato. I giornalisti in conferenza stampa insistono: e la crisi delle vocazioni? E le ragioni del celibato? A loro Schönborn risponde: «Io credo che le vocazioni in realtà ci siano, e molte. Spesso non maturano a causa di un clima di indecisione che la società contagia ai giovani. Come per il matrimonio. Incontro uomini di 40 anni che entrano in seminario. Già a 20 anni lo avevano desiderato, ma nessuno li aveva aiutati a capire. Dio, credo, chiama sempre. Il problema è saperlo ascoltare. Guardate poi in molti Movimenti e giovani comunità cristiane, quante sono le vocazioni. Chiediamoci perché, lì, ci sono. Non facciamo come certi miei confratelli che anni fa si lamentavano della mancanza di coraggio dei giovani, e non si rendevano conto che proprio il loro stile di vita secolarizzato, la loro 'teologia orizzontale' non potevano che allontanarli». E il celibato, Eminenza – incalza un giornalista – le ragioni del celibato? Schönborn: «Il sacerdote fa questa scelta volontariamente, in una prospettiva di disponibilità per Dio e per l’uomo. Sull’esempio di Cristo. Che ha scelto quella strada, donandosi interamente a Dio e alla sua missione. Che questa scelta sia possibile, lo vediamo nella vita di molti preti». Ma, ed è ancora una confessione di Schönborn qui ad Ars, per i suoi preti l’arcivescovo di Vienna prega. «Ogni sera la mia ultima preghiera è per loro. Poi, come naturalmente la preghiera si allarga a tutti quelli che sono in tribolazione. Penso ai carcerati, alle donne maltrattate, ai bambini picchiati. Ai drogati, alle prostitute, ai disperati che non hanno più voglia di vivere. La preghiera si fa allora condivisione della sofferenza di Cristo al Getsemani. E solo immergendo il dolore degli uomini nell’abisso dell’amore di Cristo, la mia preghiera della sera si fa finalmente preghiera di fiducia».