La Puglia. Anzi, le Puglie. Una volta il plurale si adoperava per correttezza storico-geografica, oggi andrebbe forse ripristinato per rendere giustizia della molteplicità di rappresentazione di cui la regione è stata oggetto negli ultimi anni. Lo suggerisce lo scrittore Mario Desiati, che questa pluralità ha testimoniato nei suoi libri, tra cui spicca
Ternitti, finalista allo Strega un paio di anni fa. «Le immagini correnti sono almeno due – spiega –. Diverse, ma non necessariamente contrapposte».
Partiamo dalla prima?È l’idea della Puglia come regione felice, terra di un equilibrio irripetibile fra bellezza naturale e patrimonio dell’arte. Un fenomeno non soltanto turistico, se si pensa all’insistenza sul tema che cinema e letteratura hanno mostrato nel decennio scorso. In un certo senso, è stata la scoperta di un provincia in cui l’Italia dà il meglio di sé.
Ma non c’è solo questo, mi sembra di capire.Infatti. L’altro aspetto è legato al ruolo di locomotore economico che la Puglia stessa ha rivestito rispetto al resto del Mezzogiorno. In tempi di crisi gli investimenti nel settore dell’industria pesante si sono risolti in situazioni drammatiche e complesse. Le più note sono quella del Petrolchimico a Brindisi e dell’Ilva a Taranto. Quest’ultimo caso, in particolare, si è imposto con grande forza nel dibattito politico ed economico, fino ad assumere connotati quasi simbolici. La questione, però, è molto concreta. Basti pensare che a Taranto il 70% del Pil deriva proprio dall’Ilva. E che la fabbrica, per estensione, è addirittura più grande della città. Per non parlare del cielo.
In che senso?Il cielo a Taranto è sempre coperto da una patina di ruggine. Il dilemma tra pane e veleno non si capisce fino in fondo se non ci si immedesima in questo contesto.
Ruggine e sole, insomma: le due Puglie sono ancora capaci di parlarsi?Per fortuna sì, e lo fanno più spesso di quanto non si creda. Un’esperienza significativa è quella dell’attore Michele Riondino, molto popolare per l’interpretazione del giovane Montalbano televisivo. Figlio di operai dell’Ilva, ha deciso di rimanere a Taranto, dove anima un comitato che, tra l’altro, si contraddistingue per un atteggiamento particolarmente combattivo. Qui le due immagini della Puglia si incontrano, mia pare, e danno vita a qualcosa di completamente inatteso.
Quindi questa è ancora una regione laboratorio?Lo è da sempre, per ragioni antropologiche e territoriali. Siamo la zona d’Italia più protesa a Oriente, la prima che ha avuto a che fare con gli sbarchi di extracomunitari. Siamo abituati ad affrontare il cambiamento, anche se un po’ a modo nostro. Già Giuseppe Di Vittorio sosteneva che in Puglia non esiste la classe operaia, ma quella dei “metalmezzadri”: gente che, finito il turno in fabbrica, torna a zappare nei campi...
E la Chiesa? Condivide questa pluralità?Sì, in Puglia anche il cristianesimo ha tanti volti. C’è una forte tradizione mistica, che dalle civiltà rupestri arriva alla devozione per padre Pio, e c’è un’anima sociale, che negli anni Ottanta ha avuto in don Tonino Bello la sua figura più carismatica e rappresentativa. Gran parte di quella che è oggi la classe dirigente della regione si è formata in quel periodo, maturando la convinzione che bellezza e lavoro siano realtà complementari e non contrapposte. Che le Puglie, in definitiva, siano una Puglia sola.