venerdì 18 ottobre 2019
Il prefetto della Congregazione per i vescovi spiega in un libro il senso della vocazione sacerdotale e si dice perplesso sull’opportunità di aprire la strada ai "viri probati" in Amazzonia
Come rinnovare il celibato? Ouellet: bellezza da riscoprire
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Il senso della vocazione sacerdotale, il ruolo del sacerdozio ministeriale, la missione e la comunione ecclesiale. Ne parla il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i vescovi, nel suo libro Amici dello sposo. Per una visione rinnovata del celibato sacerdotale (Cantagalli; pagine 224) da alcuni giorni in libreria. Il testo è una raccolta di omelie, discorsi e interventi a convegni vari, dal 2002 al 2017, sul tema del sacerdozio. Brani ricchi di riferimenti teologici e pastorali per riflettere sul celibato sacerdotale proprio nei giorni in cui se ne parla al Sinodo sull’Amazzonia.

E infatti quello sui cosiddetti viri probati è tra i temi che più hanno acceso il dibattito. L’espressione latina neppure compare nell’Instrumentum laboris. Indubitabile però il fatto che la sollecitazione – questa sì presente – a studiare «la possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una loro famiglia costituita e stabile» (129, a2) sia di quelle capaci di suscitare interrogativi e speranze, critiche e auspici. Certo, nella fittissima agenda del Sinodo sono presenti tanti temi. Ma è facile vedere come anche su questo punto si concentrano attenzioni e valutazioni, pur di segno opposto. Nelle ventidue pagine di introduzione l’autore motiva l’urgenza di riflettere sul celibato proprio alla luce del dibattito nell’Aula sinodale. Su questo aspetto, cruciale nel libro come nel dibattito ecclesiale, abbiamo concentrato il dialogo con il cardinale Ouellet.

Eminenza, in più punti del libro lei sostiene che la rinuncia al celibato potrebbe essere controproducente per l’evangelizzazione. Lei stesso si chiede quanto sia opportuno «sacrificare delle comunità in carenza di preti per salvaguardare una disciplina ecclesiastica degna di rispetto ma il cui valore non è essenziale al sacerdozio »? È più importante la salvezza delle anime o preservare il celibato?

La salvezza delle anime dipende dalla fede, ci ha insegnato Gesù. Ora mi domando se ci sia testimonianza più eloquente, per comunicare la fede, di quella di colui o colei che lascia tutto per seguire Gesù e farlo conoscere e amare? La Chiesa cattolica in Amazzonia deve la sua espansione alle comunità di consacrati che hanno diffuso la fede con la loro vita donata a Cristo per amore del Regno di Dio. D’altronde se è vero che il celibato non è essenziale per il secondo grado del sacerdozio, cioè per il presbiterato, cosa ci insegna il grado supremo del sacerdozio, cioè l’episcopato, che unisce indissolubilmente sacerdozio e celibato? Vorrei aiutare a superare false alternative, per riscoprire la bellezza tanto del sacerdozio ministeriale, quanto del sacerdozio battesimale, che sono intimamente connessi.

Lei sostiene che la soluzione dei viri probati per risolvere il problema della penuria di vocazioni, di cui si parla anche durante il Sinodo sull’Amazzonia, rischia di risultare inefficace e contraddittoria. Lei scrive che la Chiesa non può «cercare dei succedanei (dei preti) senza tradire la sua missione». Perché una valutazione così ferma?

Penso con papa Francesco che l’ipotesi dei viri probati per risolvere la crisi vocazionale in Amazzonia non sia la questione più importante del Sinodo; pertanto ne parlo molto brevemente nel libro; il mio intento è quello di fornire elementi essenziali per un dibattito serio, storicamente fondato e coerente con la tradizione della Chiesa latina. Mi chiedo se la prospettiva evangelizzatrice attuale dell’Instrumentum laboris è sufficientemente audace e centrata su Gesù: la Chiesa locale ha davvero bisogno di un sacerdozio uxorato di rito proprio per avere un volto veramente indigeno?

Lodando la santità del Curato d’Ars, lei ricorda che la sua risposta di fede fu «totale, definitiva e feconda». Una prerogativa sacerdotale, ma non solo. Pure due sposi cristiani possono esprimere una fede «totale, definitiva e feconda». E quindi potrebbero vivere pienamente quello che lei definisce il «carisma pastorale» dell’annuncio, anche ministeriale?

Papa Francesco ha scelto di pubblicare una lettera di incoraggiamento ai preti il 4 agosto scorso, festa liturgica del santo Curato d’Ars. Il mio libro espande il messaggio del Papa, mettendo in rilievo la figura del santo patrono dei parroci. Egli ha incarnato il carisma pastorale in modo tale da trasformare la sua parrocchia, le coppie e le famiglie in testimoni della fede, che hanno rinnovato il cristianesimo in Francia, dopo i tempi durissimi seguiti alla Rivoluzione. È facile intuire che il carisma degli sposi è anzitutto proprio la famiglia, da vivere come Chiesa domestica con tutte le esigenze di unità, fedeltà, fecondità e cura dell’educazione dei figli. Il carisma pastorale è un altro, richiama tutto l’essere e non è facilmente compatibile con la vita familiare. Lo sanno le tradizioni con sacerdozio uxorato, che devono fare i conti con le crisi coniugali e familiari, i bisogni economici, le assenze dal focolare ed altri fattori che possono intaccare l’impegno sacramentale primario della famiglia.

Come fondamento dell’ordine sacro anche lei richiama spesso la teologia nuziale («Cristo sposo della Chiesa sposa»). Ora, se la chiave nuziale è così efficace per esprimere il vertice del mistero, perché in un tempo di crollo delle vocazioni anche la prassi nuziale non potrebbe diventare strada opportuna per superare la visione clericale del ruolo sacerdotale?

«Gesù chiamò a se i dodici perché stessero con Lui e per inviarli a predicare» (Mc 3, 14). Egli ha voluto che i suoi ministri, cioè quelli che lo rappresentano sacramentalmente come Capo e Sposo della Chiesa, fossero con Lui e come Lui, staccati da tutto per appartenere totalmente a Lui, nell’amicizia e nel servizio. Il ministero dei preti non è solo funzionale, include una dimensione escatologica propria diversa da quella dei religiosi. Che tutti non siano santi e alcuni siano caduti in diverse forme di clericalismo, è triste e deplorevole, ma l’albero non deve nascondere la foresta: la maggioranza dei preti si sforza di seguire Gesù Buon Pastore nel mondo attuale, che non facilita la fedeltà, la prudenza e la castità. Il crollo delle vocazioni deriva innanzitutto dalla crisi demografica e dalla perdita di fiducia nella vita a causa della dimenticanza di Dio. Bisogna insegnare, sulla scia della Christus vivit, il senso della vita come vocazione.

Cosa direbbe a chi sostiene che la difesa del celibato è in realtà la difesa di una Chiesa tutta al maschile? A chi argomenta che rinunciare all’obbligatorietà potrebbe servire anche per ascoltare le istanze per far emergere il “volto materno e femminile” della Chiesa?

L’accusa di maschilismo, benché meritata in qualche ambito, non può dipendere soltanto dal fatto che il ministero sacerdotale sia riservato solo agli uomini. Sono convinto che si possa integrare la donna molto di più nei ministeri profetici e governativi delle diverse comunità ecclesiali, mantenendo l’ordinamento canonico attuale sul sacerdozio nella Chiesa Latina. Essa promuove la sua tradizione del celibato sin dalle origini apostoliche, perché questo stato e stile di vita è una confessione di fede e d’amore che racchiude un potenziale evangelizzatore incomparabile, proprio ciò di cui le culture indigene dell’Amazzonia e non solo quelle, hanno bisogno d’incontrare, per scoprire Cristo e la Sua Chiesa come mistero d’amore e di gioia. Se dovessi dire che cosa è il celibato per me, direi che è una confessione della divinità di Gesù.

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