mercoledì 24 ottobre 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
​«Che lavoro faccio?». Ci pensa un po’ a rispondere, cerca le parole per un mestiere inusuale. «Organizzo gruppi di persone che vanno a vivere dove ci sono guerre, per abbassare l’odio, proteggere la gente, fermare i conflitti senza usare la forza». Si chiama Operazione Colomba e lui, Alberto Capannini, 46 anni, riminese, una moglie e tre bambini, è stato uno dei primi a partire fin dal 1992, esattamente vent’anni fa, quando nella Comunità Papa Giovanni XXIII nacque il corpo civile di pace. «Noi abitiamo il conflitto, siamo lì dove c’è la guerra, insieme alla gente, viviamo in case come le loro, nei posti a rischio. Come diceva don Benzi, non basta aiutare qualcuno, bisogna vivere con lui». Così ogni anno centoventi volontari vanno ad abitare i conflitti, armati solo della loro presenza: «Attualmente siamo in Palestina, Albania e in Colombia», racconta Alberto. In Albania la "guerra" si chiama kanun, la legge del taglione che da secoli decima intere famiglie: «Nel Nord del Paese si dice che "il sangue non può cadere invano", quindi c’è l’obbligo della vendetta in una faida senza fine e le famiglie sono segregate in casa, bambini compresi, altrimenti sono morti». Sette volontari vivono tra loro e fanno un lavoro di riconciliazione più duro delle grandi diplomazie, «la missione è difficile, ma per ora abbiamo conquistato un buon rapporto di fiducia con entrambe le parti e quando si crea una situazione altamente a rischio chiamano noi a fare da ponte».Altri volontari operano in Colombia, nella cruenta guerra tra le Farc di matrice marxista, l’esercito e i paramilitari, una forza clandestina mossa dal governo per fermare la guerriglia. «Le vere vittime sono i civili, presi in mezzo tra tutti e costretti a coltivare la coca, che tra l’altro ci riguarda da vicino, visto che tutta la coca d’Italia viene da lì, importata dalla ’ndrangheta». Se non che il governo colombiano di recente ha ceduto i diritti di concessione dei terreni alle multinazionali coreane per l’estrazione del carbone e la coltivazione di banane, così deve "ripulire" in fretta il territorio «cioè far fuori la guerriglia... quindi i civili. Perché il metodo teorizzato dai tempi del Guatemala e poi applicato ovunque è questo: "i guerriglieri sono i pesci piccoli, per prenderli devi prosciugare l’acqua", la popolazione». In tutto questo, il miracolo: un villaggio che ha scelto di uscire dalla logica della violenza e all’ingresso ha posto un cartello coraggioso, "Qui non si entra con le armi". Si chiama San Josè de Apartador e conta centinaia di abitanti, che ai ragazzi e alle ragazze di don Benzi chiedono protezione. «Come li proteggiamo? Vivendo in mezzo a loro siamo un ottimo deterrente – spiega il volontario responsabile di Operazione Colomba –, e quando li scortiamo nella giungla preavvisiamo con un fax l’esercito del nostro "accompagnamento non violento": se le forze governative uccidessero un internazionale scoppierebbe il caos». Certamente la pace non si può fare se non si è in due, dunque c’è bisogno anche del "nemico", «ecco perché in Palestina-Israele viviamo assieme ai contadini attaccati dai coloni, ma con noi collaborano anche tanti israeliani, ad esempio i "Rabbini per i diritti umani", gruppi di avvocati e attivisti di "Parents Circle", associazione che raccoglie i genitori di persone uccise, israeliani e palestinesi insieme». E così anche At Twani, villaggio di 400 abitanti a sud di Ebron, ha chiesto fin dal 2005 la presenza di Operazione Colomba. Che è una realtà aperta a credenti e non credenti, perché l’unica cosa cui devi credere è la forza dell’amore, «dunque va bene per me, perché definirmi credente sarebbe il più alto traguardo. Preferisco dire che nel cuore ospito l’ateo ed il cristiano insieme», afferma Alberto. «Io credo alla non violenza e la tradisco tutti i giorni», ammette, e racconta che alla missione di pace approdò alla fine di un sofferto percorso alla ricerca di un senso, dopo un’adolescenza in cui «cercavo la giustizia, ma come concetto teorico, e non sapevo che volto concreto darle. Avevo un grande vuoto da colmare, ero inquieto, scontento...». Finché a 17 anni, durante un incontro pubblico, sente una voce che pronuncia parole fulminanti: «Quando moriremo Dio non ci giudicherà, i poveri ci giudicheranno!». È il suo primo incontro con don Oreste, il prete che cambierà la sua vita: «Ho sentito il fuoco dentro, io già sapevo che l’amore non è rosa, che l’amore è nero, potente, coraggioso, ma di fronte a quel prete ho capito che lo si può vivere davvero, nella carne. Capii che volevo essere come lui... Non so se riuscirò mai, so però che <+corsivo>questo <+tondo>è un uomo».Nel 1992, quando infuria la guerra tra serbi e croati, l’intuizione di vivere il conflitto per sconfiggerlo con la pace: «Lo dissi a don Oreste, e quando avevi un’idea estrema lui ti superava, ti chiedeva di essere ancora più estremo». Così, insieme all’amico Antonio De Filippis, Alberto manda un articolo ad "Avvenire" per spiegare che «la non violenza bisogna viverla dove c’è il conflitto. Fu un successo: una trentina di persone venne con noi a Zara, sotto i mortai dei serbi, una coppia andò a vivere nel campo profughi, gli altri tenevano i contatti tra le famiglie divise dal fronte o tra le chiese cattolica croata e ortodossa serba, altri ancora facevano i postini portando pacchi e missive tra le due parti». Seguiranno la Cecenia, Timor Est, l’Uganda, la Sierra Leone, il Congo, il Sudafrica, il Chiapas... Con lui all’inizio parte anche Elena, la fidanzata, oggi sua moglie e madre dei loro tre bambini, «quella che porta i soldi a casa». Perché nella Comunità non ci sono regole fisse, si vive di scelte «e la mia è di non prendere lo stipendio. Questione di libertà: parti con le tasche vuote, così se ti vogliono è perché sei tu». Nella sua vita oggi c’è solo un rimpianto, «la vergogna di aver vissuto indegnamente accanto a un amico di Dio come don Benzi... Era il segreto che volevo rubargli».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: