sabato 2 novembre 2019
Nel luogo degli orrori, «la piccola Auschwitz» di Scutari, dove si voleva distruggere la fede e dove invece i martiri continuano a parlare e a testimoniare Cristo. Attirando i giovani
I volti dei martiri a Scutari. Volevano annientarli insieme alla loro fede, invece parlano ancora e attirano sempre più persone che qui arrivano in pellegrinaggio da tutta Europa

I volti dei martiri a Scutari. Volevano annientarli insieme alla loro fede, invece parlano ancora e attirano sempre più persone che qui arrivano in pellegrinaggio da tutta Europa

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Dal muro i loro volti, a volte i sorrisi con cui sono ritratti nelle foto, bucano il tempo e arrivano fino a noi. Parlano. E raccontano una storia che nelle intenzioni dei carnefici doveva essere solo di dolore e di morte e che invece è diventata di straordinaria testimonianza. Siamo a Scutari, nella hall del Memoriale che ricorda i detenuti passati attraverso questo ex convento dei Frati minori, confiscato nel 1946 dai comunisti di Henver Hoxha e trasformato nella sede della Sicurimi, la polizia segreta del regime, con tanto di celle di tortura. Le foto, che occupano due intere pareti, sono appunto quelle dei prigionieri morti in questi stessi ambienti, in seguito a percosse e supplizi indicibili (anche il cardinale Ernest Simoni vi fu detenuto per due mesi e mezzo dopo l’arresto del 24 dicembre 1963).

Ma oggi chi entra nell’edificio (i visitatori sono raddoppiati nel giro di qualche anno, 2.500 persone nel 2018) non fa solo un salto nel passato. L’ex prigione infatti è stata restituita anche alla sua funzione originaria di sede di una comunità religiosa. Come sottolinea madre Sonia Giustizieri, badessa del monastero delle clarisse che oggi occupa una parte della struttura, «questo è un luogo di preghiera risorto su un luogo di martirio. Ma noi claustrali non siamo le custodi di un museo: vogliamo trasmettere una memoria viva che va proprio nel senso della Chiesa in uscita».

In effetti la memoria dei martiri albanesi sta producendo un piccolo grande prodigio. Il monastero delle clarisse e l’annesso Memoriale stanno diventando sempre più meta di veri e propri pellegrinaggi. «Vengono non solo dall’Albania – dice la badessa –, ma anche da Germania, Francia, Austria, Polonia e Spagna. Dall’Italia poi sono sempre più numerosi i gruppi parrocchiali che nell’ambito di campi scuola estivi si fermano da noi. La beatificazione dei martiri albanesi ha sicuramente accresciuto l’interesse per la nostra Chiesa. Il resto lo fa questa casa carica di storia che per quasi 50 anni è stata una piccola Auschwitz».

Nell'ex prigione le clarisse arrivarono nel 2003 da Otranto, trovando in pratica solo macerie. Poi i lavori di restauro e nel 2005 la benedizione e l’inaugurazione. Oggi la comunità monastica comprende sei claustrali (due italiane e quattro albanesi, queste ultime provenienti da famiglie che avevano subito la persecuzione durante il regime). E il grande edificio con pianta a L parla, anche grazie a loro, una lingua immediatamente comprensibile, specie dopo che il recupero ha lasciato intatte le camere di detenzione e tortura. Di alcune si è potuto ricostruire anche gli occupanti: tra gli altri Mikel Beltoja, sacerdote dell’arcidiocesi di Scutari-Pult, morto il 10 febbraio 1974, e Maria Tuci, giovane aspirante delle suore Stimmatine, che fu rinchiusa in un sacco con un gatto selvatico, il quale la sfregiò completamente, causandole la morte per setticemia (24 ottobre 1950). Beltoja e Tuci figurano nell’elenco dei 38 martiri, le cui sofferenze sono state descritte nella positio della causa di beatificazione e sintetizzate nella poesia Albania insanguinata, scritta dal gesuita Giuseppe Patti. Visitando le stanze del Memoriale, dopo il filmato introduttivo che introduce i visitatori nel clima di quell’epoca, attraverso una galleria si entra nel lager.

Sui muri si vedono ancora i segni incisi dai prigionieri con le unghia: croci, prospetti di chiese e di moschee, il regime non faceva differenze tra cristiani e musulmani. E nel silenzio sembra di risentire le loro grida strazianti. «Hanno messo le uova bollenti sotto le ascelle, ci hanno lasciato nudi per giorni e giorni, legati agli alberi del giardino del convento nel nostro gelido inverno – così scrive padre Patti –. Hanno scaricato tanti e tanti volt tra le nostre orecchie e tanti di noi sono morti così, hanno tagliuzzato la carne delle nostre cosce e hanno riempito le ferite di sale. Ci hanno appeso per i piedi come animali macellati».

Oggi di quella umanità dolente restano pochi oggetti riposti nelle bacheche di vetro del memoriale. Piccole tabacchiere, cucchiai, scodelle e gli ordini di condanna a morte, firmati da Hoxha in persona. La piccola Auschwitz è anche in questi agghiaccianti particolari. Ma il visitatore è chiamato, quasi spinto, a non concludere così il suo giro. Oltre gli oggetti, oltre le celle di morte, c’è il monastero vero e proprio.

Per chi vuole, le monache sono pronte all’incontro. Niente grate, nel parlatoio, solo un cordone di stoffa segna l’inizio della clausura. «Non abbiamo voluto mettere alcun segno che ricordasse quegli anni», spiega madre Sonia. Che aggiunge: «Colgo soprattutto nei giovani, molti dei quali sono figli di albanesi emigrati all’estero, un bisogno di autenticità di vita che spinge alla ricerca di Dio. L’esempio dei martiri attira e offre una risposta alla loro sete di senso».

Del resto, prosegue la monaca, «questi luoghi furono le tappe del calvario di tanti fratelli che non esitarono ad affermare l’appartenenza a Cristo anche a costo della vita. I cristiani di oggi possono prendere spunto dal loro esempio, per donare se stessi con scelte di carità e dare vero significato all’esistenza». Dal muro, i volti di quelle foto che furono uomini in carne e ossa sembrano annuire. La follia ideologica voleva cancellarli per sempre. E invece parlano ancora.



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