All’inizio degli anni Novanta, quando Ferruccio Parazzoli andò in Curia per comunicargli che lo aveva scelto come personaggio di un suo romanzo, il cardinal Martini non si scompose: «Faccia pure – gli disse –, tanto non leggo narrativa». Di libri, però, se ne intendeva, e non soltanto per la sua competenza di biblista. «Da sempre i suoi scritti erano seguiti da un pubblico molto vasto», ricorda Parazzoli, dirigente editoriale di lungo corso e prefatore del “Meridano” che Mondadori ha dedicato lo scorso anno all’opera di Martini. «A un certo punto, però, c’è stata una svolta», aggiunge.
Quando?Nel 2008, l’anno di pubblicazione del libro-intervista
Conversazioni notturne a Gerusalemme. Si sapeva che il cardinale stava lasciando la città in cui aveva scelto di finire i suoi studi e i suoi giorni. Ma aveva bisogno di cure, il suo ritorno in Italia era ormai imminente. Da quelle pagine uscivano affermazioni molto personali, contraddistinte da un’onestà intellettuale e spirituale senza precedenti. Fu con quel best seller che Martini conquistò definitivamente i lettori laici.
Era il compimento di un processo avviato con la Cattedra dei non credenti?Direi che questo era stato, fin dal principio, il tratto più caratteristico della figura di Martini. Ce ne accorgemmo subito, non appena fu destinato alla guida della diocesi ambrosiana. Il suo mandato era posto sotto il segno di una promessa, che poi è stata mantenuta: perfino chi si considerava estraneo alla Chiesa, avrebbe scoperto che dalla Chiesa veniva una voce di riscossa.
Alcuni lo consideravano distaccato, distante.Posso dire, per esperienza personale, che il Martini ieratico, intravisto sulla soglia dell’Arcivescovado, non era meno autentico del Martini “privato”, che ho avuto modo di frequentare in questi anni a Gallarate. Quelli che si vedevano non erano i paramenti del cardinale: era il cardinale, semplicemente.
Come ha vissuto la prova della malattia?Quando è stato il momento, si è limitato ad annunciare il suo stato di salute. Non ne ha fatto un tema di dibattito, non lo ha adoperato per attirare l’attenzione. Eppure la sua è stata una testimonianza intensa. Finché ha potuto, ha comunicato, ha espresso il suo pensiero, poi si è limitato a esserci, a stare nella propria sofferenza. Così la sua voce è rimasta, anche se non riusciva più ad articolarla.
Anche su questo ci sono stati (e ci sono) equivoci. Come mai?Sono sempre stato convinto che nelle posizioni del cardinale non ci fosse nulla di stravagante, e tanto meno contrastante, rispetto al Magistero della Chiesa. Non poteva essere altrimenti, perché Martini era un biblista e la sua fede era radicata nell’Antico Testamento. Tutto il suo pensiero teologico e il suo stesso comportamento cristiano derivavano dalla lezione dei patriarchi. Abramo, anzitutto, che è modello di ogni credente nonostante la sua indegnità.
Abramo che ha paura, dubita, cerca di sottrarsi.Ma alla fine accetta il rischio della fede. Vede, in Martini c’è questa chiarezza assoluta che lo porta a indicare la paura come un fatto inalienabile per ogni uomo. Anche il coraggioso la conosce ed è appunto attraverso di essa che rivede la propria vita, la rimette in gioco. Sono i momenti in cui tutti, credenti e non credenti, tornano a misurarsi con il mistero di Dio.
Martini in realtà amava distinguere fra pensanti e non pensanti.Perché la ragione è l’unica risorsa che ci permette di fronteggiare il caos che si sprigiona dalle cose, dal mondo, perfino dal nostro pensiero. È una grande opportunità, ma limitata. La ragione arriva fino a un certo punto. Dopo di che, come il cardinal Martini ha insegnato, ognuno di noi deve decidersi a fare il salto della fede.