Quattro papi e due rivoluzioni. Si potrebbe riassumere così lo strano ricorso storico che vede, dopo due secoli, ripetersi un evento del tutto particolare: un papa che celebra i funerali del suo predecessore. Se oggi assistiamo alle esequie di Benedetto XVI officiate da un vescovo salito dopo di lui sul soglio di Pietro, qualcosa di simile capitò nel 1802 quando Pio VII, il benedettino Barnaba Chiaramonti, celebrò i funerali di Pio VI. Altri tempi e altro contesto. L’Europa era sotto lo scettro di un generale francese, divenuto imperatore: Napoleone Bonaparte.
Erede della Rivoluzione del 1789, che la Chiesa di Roma aveva condannato come la più grave sovversione dell’ordine divino, Napoleone aveva compiuto l’inimmaginabile: aveva trascinato il vicario di Cristo in Francia, in catene, con l’idea di asservire le strutture del cattolicesimo romano al suo piano di conquista. Il “prigioniero” Pio VI fu destinato a concludere i suoi giorni lontano dalla cattedra di Pietro: nella cittadella di Valence, come un capitano d’armata caduto nella guerra di logoramento tra trono e altare, papa Braschi si spegneva il 29 agosto 1799. Il primo funerale si svolse in Francia, mentre in terra libera (nella Venezia degli Austriaci) si apriva il conclave.
Ne usciva eletto Pio VII, a cui Napoleone avrebbe dato altro filo da torcere. Il nuovo pontefice profuse grandi energie per riportare a Roma i resti mortali del suo predecessore che, di fatto, era diventato un’icona di martirio. La vigilia di Natale del 1801, il corpo di Pio VI veniva dunque riesumato e con un viaggio via mare (da Marsiglia verso le coste liguri) imboccava la strada di Roma. Il 17 febbraio 1802, il successore di Pietro tornava nella basilica di san Pietro e, qui, le sue esequie venivano celebrate da Pio VII. Ma non era finita: il corpo di papa Braschi era destinato a essere ancora oggetto di scontro: i francesi reclamarono che il cuore del pontefice fosse riportato a Valence, dove effettivamente tornò, e solo nel 1811 fu restituito alla Santa Sede. Davvero storie di altri tempi.
Oggi non assistiamo a nulla di tutto questo, anche se, per molti aspetti, alcune delle tensioni che caratterizzarono la sorte dei resti di Pio VI sembrano percorrere sotto traccia persino l’addio dato da Francesco a Benedetto XVI: il ruolo della Chiesa nella società, e l’identità stessa della Chiesa. Se Pio VII voleva rafforzare, con un rito voluto e reclamato, l’immagine di una cristianità che, nonostante le persecuzioni, proseguiva a stringersi attorno al vicario di Dio resistendo alla modernità, nei funerali di Joseph Ratzinger si assiste invece a un confronto tra due papi molto diversi – volutamente e coscientemente diversi – che devono alla loro diversità il loro avvicendamento. E questo processo è, a suo modo, un riavvolgere i fili, per ribadire una continuità, nella diversità. Non si tratta solo di una retorica antica, nella Chiesa romana e nei linguaggi del papato; ma di qualcosa di più profondo e sostanziale.
E con questo veniamo alla seconda rivoluzione: quella (non francese) di Benedetto XVI. Se ne è scritto e detto molto, in questi giorni come nei mesi in cui si consumarono le sue dimissioni. È un gesto che, a suo modo, “desacralizza” il pontefice, avvicinandolo a esigenze di governo e di efficacia pastorale più comprensibili. Ed è un gesto che mira a rafforzare un modello di santità che passa per la normalità, l’ammissione di una fragilità umana e la possibilità che tutto questo non sia mediato o manifestato da una resistenza eroica, ma dal silenzio della rinuncia. Può capitare così che un papa celebri l’ultimo saluto del suo predecessore: e forse, come nel 1802, è il segno profetico di una rivoluzione in corso.