La via dell’«Uscire»
Per introdurre questa relazione finale sulla via dell’«uscire», faccio riferimento ad un passaggio del discorso che ci ha rivolto papa Francesco:
«Voi uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo».
In queste parole del papa, troviamo l'indicazione ai cristiani cattolici italiani del grande compito per il nostro tempo, segnato dalla creatività e dal travaglio tipici di ogni cambiamento d'epoca. Quando si presentano nuove sfide, addirittura difficili da comprendere, la reazione istintiva è di chiudersi, difendersi, alzare muri e stabilire confini invalicabili.
È una reazione umana, troppo umana. Tuttavia i cristiani hanno la possibilità di sottrarsi a questo rischio, nella misura in cui diventano davvero consapevoli che il Signore è attivo e opera nel mondo: non solo nella Chiesa, ma proprio nel mondo, proprio dentro e attraverso quel cambiamento e quelle sfide.
Allora si apre una prospettiva nuova: si può uscire con fiducia; si trova l’audacia di percorrere le strade di tutti; si sprigiona la forza per costruire piazze di incontro e per offrire la compagnia della cura e della misericordia a chi è rimasto ai bordi.
Questo è il «sogno» di papa Francesco per gli uomini e le donne che testimoniano Cristo oggi in Italia. Dipende da noi metterci cuore, mani e testa affinché questo «sogno» possa diventare realtà. Condizione essenziale è quella di riconoscere che «uscire» è più un movimento che una dotazione; non costituisce un’attività particolare accanto ad altre, bensì rappresenta lo «stile», ovvero la forma unificante della vita di ciascun battezzato e della Chiesa nel suo insieme. Infatti, come ha rimarcato il papa, «l’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale».
1) Lo Spirito all’opera
La «umanità in uscita», che scopre nel rapporto credente con Gesù Cristo la sua sorgente e il suo modello, non è una realtà senza luogo; piuttosto, essa trova il suo luogo visibile e sperimentabile nel vissuto delle comunità ecclesiali. Ciò si riscontra particolarmente in alcuni tratti di questo vissuto, nei quali si scorge lo Spirito all’opera:
- sempre di più si avverte nelle comunità cristiane la messa in atto di un cammino di conversione all’essenziale, di maturazione del senso autentico della povertà evangelica, riconoscendo con maggiore limpidezza che la cura per la trasmissione della fede è la ragione fondamentale del nostro essere Chiesa;
- inoltre, è in atto un cammino in uscita motivato dall’ascolto della Parola di Dio compresa alla luce della grande Tradizione ecclesiale. Questo ascolto, che è conversione a Cristo e al suo Vangelo, spinge nello stesso tempo ad essere più liberi e più creativi nel vivere la missione evangelizzatrice, rende più aperti alla realtà, più estroversi, capaci di riconoscere e di servire quanto lo Spirito va operando nell’umano, tra le donne e gli uomini del nostro tempo;
- ancora, la celebrazione eucaristica domenicale sembra essere vissuta come luogo formativo dell’uscire, del prendersi cura e dell’accompagnare la vita nella modalità del farsi dono, dalla quale scaturiscono i motivi dell’incontro e i criteri guida per ogni espressione di Chiesa e ogni attività pastorale;
- un rilievo del tutto particolare è riconosciuto alla cura nei confronti delle persone segnate da diverse forme di emarginazione e da ferite provocate da sofferenze o situazioni della vita. A questo livello, appare ben visibile una vera e propria «costellazione di espressioni di carità» che connotano la pratica quotidiana della Chiesa, arricchita anche dal recupero conciliare del diaconato permanente;
;
- un ulteriore luogo di visibilità dell’umanità in uscita è dato dalla presenza dei giovani. Cito un’osservazione espressa dal tavolo dei giovani all’interno del gruppo: «La prima risorsa sono i giovani stessi. Purtroppo essi si trovano già in uscita, sia da una società che sembra non aver più bisogno di loro […], che da una Chiesa per la quale provano poco interesse e fascino. Le comunità non di rado tendono a trattenere i giovani, in un disperato tentativo di serrare le fila, nella paura che vadano, che si intromettano, che si sporchino. Occorrono comunità audaci, capaci di scommettere sui giovani, ben sapendo che commetteranno errori e combineranno guai, ma pronte ad accoglierli e comprenderli (non a scusare ogni pigrizia e tollerare l'apatia). I giovani, per la loro diversa sintonia con le cose della storia e dello Spirito, possono aiutare più di ogni altro le comunità a ripensarsi aperte e in uscita e ad avventurarsi per nuovi percorsi di annuncio»;
- infine, un luogo significativo dell’umanità in uscita è data dai gesti e dai segni di accoglienza delle persone provenienti da inedite frontiere di dramma, come quella dell’esodo di popoli. L’arrivo di queste persone, fisicamente e forzatamente «in uscita» dalle loro terre, mette alla prova la nostra autentica disponibilità a non trasformare il riferimento alla via dell’uscire in un puro esercizio retorico, in quanto ci spinge a passare da progetti puramente assistenziali a progetti di «inclusione e integrazione sociale e comunitaria», come il Papa ha ricordato durante la visita pastorale a Prato.
2) Linee di azione
L’indicazione di alcuni luoghi concreti già in atto, nei quali si può toccare con mano lo stile dell’«uscire», non ci esime dal riconoscere che resta ancora molto cammino da compiere, per avvicinare sempre di più alla realtà il «sogno» di una Chiesa in uscita. A tale riguardo, emergono differenti linee di azione dalle scelte individuate nei gruppi.
Anzitutto, sembra importante sottolineare l’esigenza di evidenziare la dimensione umana di Gesù, come punto di partenza per una proposta testimoniale che sia vicina al «sentire» delle persone e quindi non astratta. Porre al centro Gesù Cristo, nella sua identità integralmente umana e proprio per questo pienamente divina, significa raccogliere la spinta a semplificare, tornando all’essenziale; soprattutto, significa uscire da noi stessi, lasciarsi snidare, vincendo la tentazione di un troppo facile accomodamento. A questo proposito, vorrei citare un’immagine efficace, espressa dal tavolo dei giovani:
«Occorre fare un falò dei nostri divani. Raccapricciarci della cristallizzazione delle nostre abitudini, che trasformano le comunità in salotti esclusivi ed eleganti, accarezzando le nostre pigrizie e solleticando i nostri giudizi sferzanti. Occorre darci reciprocamente e benevolmente, ma con determinazione ed energia, quella sveglia che ci ricorda che siamo popolo in cammino e non in ricreazione, e che la strada è ancora lunga».
Serve allora in primo luogo, come si diceva all’inizio, un cambiamento di stile. Non si tratta di «fare» per forza cose nuove, di avviare chissà quali iniziative, bensì di convertire la forma complessiva dell’agire pastorale, per renderlo maggiormente capace di mettersi a servizio dell’incontro di ciascuno con Gesù Cristo e la sua forza di autentica umanizzazione. L’incontro testimoniale con altri, se non vuole correre il rischio di rimanere un contatto superficiale, deve accadere sempre volta per volta, e volto per volto.
Di conseguenza, per uscire verso gli altri è necessario accorgersi di chi ha bisogno, e non solo della sua indigenza; è necessario essere in grado di mappare il territorio, monitorarne le dinamiche, anche grazie ad “antenne sociali” disseminate, cioè a punti di riferimento di singoli e famiglie in grado di portare nelle comunità ecclesiali le domande di vita spesso nascoste o ignorate.
A questo riguardo, superando un latente clericalismo, è indispensabile recuperare una presenza laicale capace di ripartire verso nuove frontiere. Occorre dunque tornare a parlare dell’identità del cristiano impegnato come figura da non confondere o identificare con l’operatore pastorale. Tocca in particolare ai laici – senza ulteriori specificazioni e specializzazioni - presentare all’attenzione della comunità cristiana l’ordine del giorno del mondo, con uno sguardo globale e un agire locale, per scongiurare il rischio di insignificanza o di mera organizzazione dell’ordinario.
Lo Spirito chiede una continua uscita/conversione a tutti i credenti affinché si riconoscano evangelizzatori; una conversione che non si pone solo sul piano morale, ma anche sul piano dell’apertura mentale e della fedeltà all’impulso imprevedibile dello Spirito stesso, per superare le precomprensioni rigide e per riscoprire la forza liberante del Vangelo. C’è bisogno inoltre di suscitare nuove figure educative non previste dalla pastorale convenzionale (ad esempio, educatori di strada ed educatori della notte), che siano adeguatamente preparate e accompagnate. Così come sarebbe opportuno valorizzare di più la figura dei diaconi permanenti, affinché vivano il loro ministero come un servizio a tessere una rete di comunione a partire dal basso, dall’incontro effettivo con le persone nelle loro situazioni comuni di vita: diaconi che siano occhi, bocca, orecchie, mani di una Chiesa tra la gente.
Inoltre, per crescere nello stile testimoniale, sembra importante riconfigurare e rilanciare gli organismi di partecipazione; in particolare, si tratta di ragionare in termini di corresponsabilità di tutti alla costruzione della comunità - ministri ordinati, consacrati e laici - lasciando da parte la paura non evangelica di perdere il potere.
La corresponsabilità è chiamata ad esprimersi anche attraverso la costruzione di una rete tra le comunità ecclesiali. A tale riguardo, uno strumento concreto potrebbe essere la creazione di un sito in cui, stabilmente, tutte le diocesi italiane condividano tanto sollecitazioni spirituali quanto iniziative di tipo pastorale. Il fine sarebbe quello di favorire un interscambio di «modalità di uscita» innovative ed efficaci, nonché un dono reciproco tra le diocesi di operatori pastorali esperti in determinati ambiti. Mettere in rete infatti significa anche mettere in comunione i percorsi della vita delle Chiese locali. Più ampiamente, significa promuovere una pastorale in prospettiva digitale, necessaria per l’indole di una Chiesa aperta e in dialogo soprattutto con i giovani.
Infine, non si può omettere il riferimento all’apertura alla dimensione universale della Chiesa, in particolare nella forma del rilancio dell’esperienza dei fidei donum, andando però in maniera prioritaria nella direzione di un’interazione tra diocesi, anziché privilegiare l’esperienza individuale del singolo missionario.
3) Impegni
La messa a fuoco delle linee di azione ci chiede infine di rimarcare alcuni impegni più precisi, da affidare allo sforzo creativo di progettualità delle nostre Chiese locali. Ne evidenzio tre:
1) Avviare un processo sinodale: l’esperienza vissuta durante i giorni del Convegno ci ha permesso di saggiare e condividere uno stile di ascolto e di confronto; ci ha fatto sperimentare che è realmente possibile esercitare il discernimento comunitario, anche attraverso la fatica benedetta del lavorare assieme di laici, presbiteri, vescovi, religiose e religiosi. L’esperienza e lo stile che abbiamo vissuto destano un desiderio di modalità di vita ecclesiale, che chiede di essere partecipato attraverso la testimonianza dei delegati che a diverso titolo ne hanno preso parte. Incamminarsi in un percorso sinodale è la strada maestra per crescere nell’identità di Chiesa in uscita, capace di mettersi in movimento creativo, innovando con libertà dentro un orizzonte di comunione.
2) Formare all’audacia della testimonianza: occorre avviare processi che abilitino i battezzati ad essere evangelizzatori attenti, capaci di coltivare le domande che provengono dall’esperienza di fede e di andare incontro a tutte le persone animate da una autentica ricerca di senso e di giustizia. La mediazione ecclesiale dell’evangelizzazione riveste il compito essenziale di guidare all’ascolto della Parola di Dio in tutta la sua ampiezza e di mostrare come il Vangelo sappia interpretare la condizione di vita di ogni uomo, aprendola a possibilità e a significati di salvezza che si fondano sulla gratuità dell’azione di Dio in Gesù Cristo. L’annuncio del Vangelo non deve essere offerto come una summa dottrinale o come un manuale di morale, ma anzitutto come una testimonianza sulla persona di Cristo, attraverso un volto amichevole di Chiesa tra le case, nella città.
3) Promuovere il coraggio di sperimentare: è l’indicazione formulata ancora dalla tavola dei giovani, i quali propongono ad ogni comunità cristiana di «costituire un piccolo drappello di esploratori del territorio, che non si perdano in ampollose analisi sociologiche o culturali, ma si impegnino ad incontrare le persone, soprattutto nelle periferie esistenziali dove l'uomo è marginalizzato. L'approccio non è quello di chi va a risolvere problemi perché ha soluzioni pronte e risposte a tutto, ma di chi si china a medicare le ferite con la stessa fragilità e povertà».
Certo, la forma strutturale della Chiesa in uscita è la relazione rinnovata con chiunque, specialmente con i poveri e i cosiddetti lontani. Forse è proprio questo che permette al «sogno» di papa Francesco di diventare realtà: si tratta di non limitarsi ad assumere l’atteggiamento delle sentinelle, che rimanendo dentro la fortezza osservano dall’alto ciò che accade attorno, bensì coltivare l’attitudine degli esploratori, che si espongono, si mettono in gioco in prima persona, correndo il rischio di incidentarsi e di sporcarsi le mani. D’altra parte, i discepoli del Signore sanno che non si esce per dare un’occhiata, ma per impegnarsi nel viaggio senza ritorno che è l’esistenza segnata dalla passione per tenere vivo il fuoco dell’Evangelo, quel fuoco che è capace - oggi come sempre - di illuminare la strada verso l’autentica umanizzazione.
* docente di teologia fondamentale presso la Facoltà Teologica dell'Italia settentrionale