Abdoulaye Diaby: «Rigrazio gli italiani per quanto ho avuto fino ad ora». Ma il futuro è incerto
Senegal, Mali, Niger, Libia. Quindi Italia, prima Catania e poi Milano. In mezzo, la Francia. La vita di Abdoulaye Diaby, detto Laye, 22 anni, è un passaggio continuo. Fatto di progetti, di drammi. Di scadenze. Più cerca integrazione e stabilità, più il percorso si complica. La svolta negativa è arrivata con la cancellazione della protezione umanitaria, nel novembre scorso, sostituita dalla concessione di un permesso soggiorno temporaneo per casi speciali. Termine definitivo: 28 novembre 2020.
Nel frattempo, la cifra dominante rimane la precarietà più assoluta. «Eppure non posso che ringraziare l’Italia e gli italiani per quel che ho ricevuto sinora – racconta –. In Sicilia ho imparato la vostra lingua e ho fatto la scuola dell’obbligo, in Lombardia ho trovato un lavoro e un gruppo di amici». Con alcuni di loro, gioca a calcio nella squadra St Ambroeus, la prima fatta di soli richiedenti asilo iscritta alla Figc, campionato di Terza categoria anno 2018/2019. «Siamo tutti stranieri, seguiti da tanti volontari italiani. Quando serve, ci danno una mano. Vogliamo essere in regola e ci aiutiamo gli uni gli altri. Sappiamo che senza un permesso di lavoro, adesso, si va a casa».
A Secu, un amico di Laye che arriva dalla Costa d’Avorio, i documenti scadranno tra poche settimane e non c’è alcuna certezza che basti un’occupazione, per quanto provvisoria, per restare nel nostro Paese. «Ma per noi, il St Ambroeus è come una famiglia che provvede a tutto: anche a trovare un tetto dove dormire, se serve».
Che questi ragazzi siano abituati a una situazione di totale incertezza, del resto, lo dimostra la loro storia. «Sono arrivato da voi che ero minorenne – riprende Laye –. Papà era morto e io avrei dovuto prendere il suo posto come capo villaggio, in Africa. Prima però mi hanno minacciato, poi hanno provato a uccidermi quando andavo a scuola. Sono dovuto fuggire dal Senegal al Mali, quindi sono arrivato ad Agadez».
Il racconto successivo del viaggio in Libia, qualche mese di lavoro e poi la notte della traversata. «Non sapevo dove stavamo andando, sapevo che non sarei più tornato indietro. Per fortuna ci ha soccorso un’imbarcazione della Guardia costiera e ci ha portato a Lampedusa». Degli inizi nel nostro Paese, ricorda l’arrivo in pullman al primo centro d’accoglienza, le lacrime della signora che ascoltava la sua storia in Commissione territoriale, i primi impieghi in campagna. La lunga trafila burocratica non ha spento l’entusiasmo per il nostro Paese. Il pensiero torna ancora al calcio. «Finché ho la residenza in Italia, sono felice. Senza, dice il regolamento, non posso essere tesserato da nessuna squadra...»