mercoledì 11 settembre 2024
Forse a dicembre il via all'accesso controllato contro il sovraffollamento turistico. Poi se l'esperimento funzionerà, sostare mezz'ora presso il monumento costerà due euro. Gratis i romani
La Fontana di Trevi "invasa" dai turisti

La Fontana di Trevi "invasa" dai turisti - Fotogramma

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Prove tecniche di accesso controllato - e per ora gratuito - già nei prossimi mesi. Forse da dicembre. Poi, se l’esperimento funzionerà, per arrivare a bordo vasca della Fontana di Trevi sarà necessario avere prenotato l’ingresso e pagare due euro per accedere all’invaso, pochi gradini sotto il livello stradale, e passare così una mezz’ora a gettare monetine, scattare foto e ammirare il capolavoro barocco-classicista voluto a metà ‘700 da papa Clemente XII. L’ingresso, contingentato, resterà gratuito per i romani. Vietato il consumo di cibi e bevande. Ma nessuna chiusura della piazza: né tornelli, né tanto meno cancellate nelle vie di accesso (L.Liv.)

Dopo la sperimentazione del numero chiuso, a via a dicembre, i turisti dovranno pagare per sedersi per 30 minuti sui gradini di Fontana di Trevi. Per i romani, invece, nessun pedaggio. Lo scopo sarebbe contrastare l’assedio quotidiano alla celebre scenografia di Nicola Salvi, inaugurata nel 1762, canto del cigno della Roma barocca. L’operazione sembra riprendere su scala puntuale il principio adottato invece a livello urbano da Venezia. In linea teorica le finalità dichiarate non possono che essere condivise: ridurre l’impatto del sovraffollamento turistico. Che i centri storici scricchiolino sotto una inedita pressione antropica è un dato di fatto. Ma davvero queste soluzioni consentono di bilanciare conservazione e valorizzazione, cultura ed economia, qualità dell’offerta e della domanda, oltre che salvaguardare il diritto di accesso? La domanda non è peregrina per un fatto preciso: l’ammissione è a pagamento. Il sospetto è che, oltre agli obiettivi dichiarati, ci sia anche il desiderio di fare cassa. Il caso veneziano, dove non c’è neppure il numero chiuso, il ticket non serve certo a frenare l’assalto a piazza San Marco: appare più semplicemente una tassa di soggiorno mascherata, alla quale fino a ora sfuggiva chi non pernotta. Un altro caso di bigliettazione che appare finalizzata a rimpolpare i bilanci è quella introdotta un anno fa al Pantheon. Nella seconda metà del 2023, ossia da quando l’ingresso è diventato a pagamento, il numero di visitatori mensili si è ridotto a un terzo. A fronte di un anno record (quasi 58milioni i visitatori nei musei e nelle aree archeologiche dello Stato, per un incasso di oltre 313 milioni di euro, entrambi mai così tanti) il Pantheon ha visto pressoché dimezzare i visitatori complessivi rispetto a 2019, l’ultima annata pre-Covid. Gli introiti sono ammontati a 6 milioni di euro (destinati il 70% al ministero, il 30 al Vicariato di Roma). Se lo scopo del biglietto a pagamento dovesse essere scoraggiare i visitatori, bisogna dire che funziona. Ma è questa la missione della cultura pubblica? Nell’ansia di trovare soluzioni pratiche a un problema oggettivo, anche economico, si è aperto un problema poco compreso, che interessa i luoghi e i monumenti nati non solo per una fruizione senza condizioni ma che tuttora costituiscono parte viva del tessuto urbano. Qui c’è in gioco l’evaporazione dell’originaria natura pubblica dello spazio: ossia liberamente disponibile tanto ai cittadini quanto agli ospiti. Fontana di Trevi nasce come un gesto di gratuità. Celebrativo certamente, paternalistico forse: ma di sicuro gratuito. Le stesse sedute attorno all’acqua sono state pensate per l’ozio. Un salutare spreco di tempo, la cui durata non può essere sottoposta a un timer. È lo stesso dilemma che grava sull’ingresso a pagamento nelle chiese. L’introduzione di un biglietto risolve almeno in parte un problema – la manutenzione e la custodia del bene – ma ne apre un altro, meno quantificabile sotto il profilo contabile ma molto concreto: la separazione tra valore culturale e valore cultuale dell’edificio. Il biglietto crea una vera e propria distorsione percettiva per la quale la chiesa acquisisce una sorta di doppia natura: per gran parte della giornata è un museo a pagamento, per alcune ore è un luogo di culto. Per paradosso, l’introduzione del biglietto alla Fontana di Trevi al contrario fa scemare l’elemento culturale e carica quello, già latente, cultuale – inteso va da sé, non in senso strettamente religioso. Solo pochi eletti potranno accedere all’acqua, il sancta sanctorum, e solo dietro il conferimento di un’offerta. Ai non iniziati resta la visione a distanza. Nella dimensione urbana, pubblica per eccellenza, la creazione di un cordone liminale, invalicabile senza autorizzazione, crea una lacerazione tanto invisibile quanto chiaramente percepibile non solo nella continuità spaziale della città ma soprattutto nella continuità storica che ha proprio nell’uso la sua essenza: forse è quello che proviamo a chiamare identità. È quanto accade ormai da anni alle piazze Colonna, davanti a Palazzo Chigi, e Montecitorio, tra loro comunicanti, spesso transennate per lunghissimi periodi di tempo ma un tempo sempre transitabili fino a sfiorare fisicamente le sedi che incarnano la Repubblica. L’attraversamento della città consentiva di fare autentica esperienza della “realtà” delle istituzioni, nonché della loro contiguità e autonomia. In nome della sicurezza si è finito per suggerire una privatizzazione di spazi dall’altissimo valore simbolico. La non accessibilità rende manifesta una distanza insanabile e certifica istintivamente che politica e popolo abitano sfere distanti e differenti. Esattamente al contrario invece opera l’apertura con visite, gratuite del palazzo del Quirinale, definito dal presidente Mattarella “casa degli italiani”. C’è un ultimo paradosso. Si sta delineando un cortocircuito tra i musei da una parte, proprio quelli che un cliché vuole luoghi chiusi, fortezze di una cultura esclusivista, ma che sempre stanno diventando spazi aperti, inclusivi, partecipativi, con un speciale focalizzazione sulla capacità di generare cittadinanza – in sintesi, una nuova interpretazione, espansa, della propria, storica missione pubblica – e dall’altra i beni culturali urbani vengono “musealizzati” in senso retrivo, ossia sottratti al tempo e allo spazio che era loro proprio: la loro nativa, fondativa dimensione cittadina. Sottratti, potremmo dire, al loro essere res publica: bene comune. Ma si può fare cittadinanza senza città?

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