La targa messa dal Comune di Milano sul luogo dell’attentato
Il 12 dicembre 1969 la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana è piena di clienti. Alle 16.37 nel grande salone esplode un ordigno imbottito con 7 chili di tritolo; muoiono 17 persone (l’ultima un anno dopo, per problemi di salute legati all’attentato) e 87 rimangono ferite. Una seconda bomba inesplosa viene rinvenuta alla Banca Commerciale Italiana in piazza della Scala e pure in una banca e in due piazze di Roma si verificano tre attentati che provocano 16 feriti.
«Mi ricordo bene quel giorno. Avevo 14 anni: ero andato a scuola, poi nel pomeriggio finiti i compiti, avevo dato una mano in cascina perché c’era sempre da fare. A un certo punto scese la nebbia e entrai in casa con mia mamma. Aspettavamo mio papà che era andato a Milano in banca per depositare alcuni contratti. Doveva chiamare perché mia sorella, che allora aveva 21 anni e aveva la patente, andasse a prenderlo alla stazione di Abbiategrasso. Ma la telefonata non arrivò». Giuseppe Scaglia è l’ultimo figlio di Angelo, una delle vittime della bomba nella Banca dell’Agricoltura il 12 dicembre 1969. Scaglia non morì subito: amputato di una gamba e con gli organi interni squassati dalla violenza dell’esplosione sopravvisse fino alla sera di Natale percorrendo negli ultimi giorni un’autentica via Crucis. Il cardinale Giovanni Colombo che ne celebrò i funerali il 30 dicembre ad Abbiategrasso, parlò di lui come «dell’umile patriarca della bassa» e ne esaltò in una omelia tanto bella quanto dolorosa, la fedeltà della vita e la capacità di perdonare. Ricordava lo stesso arcivescovo, quando lo andò a visitare lo sorprese dicendo «Fu una cosa orrenda ma preferisco averla subita piuttosto che averla fatta agli altri». E poi, indicando il Crocifisso aveva aggiunto «E’ lui che mi dà la forza ».
Signor Scaglia come ricorda quel 12 dicembre?
Rientrati in casa ci mettemmo ad aspettare papà. Di solito chiamava verso le 18 dalla stazione prima di partire dalla stazione verso Abbiategrasso ma il telefono non squillava. Non ci preoccupammo più di tanto per il ritardo perché accadeva che le cose andassero per le lunghe. A metterci in allarme fu il telegiornale della sera che parlò dell’esplosione nella banca dicendo che era scoppiata una caldaia. Poi ci chiamò un amico del papà che ci disse che c’erano tanti morti. E allora mia mamma e alcuni fratelli partirono per Milano e lo trovarono un ospedale. Era lucido ma consapevole. Ai miei disse che i medici che lo avevano visitato in pronto soccorso avevano scosso il capo senza dire nulla e si erano allontanati. E poi aveva raccontato della fiammata, del buio, delle grida dei feriti, dei corpi dei morti a terra: una scena straziante.
Ai soccorritori disse «Aiutatemi, ho undici figli»...
Per mio papà la famiglia era la cosa più importante. Era nato nel 1908, all’epoca aveva 61 anni, aveva sempre lavorato e cresciuto noi ragazzi insieme a mia mamma. Era grande e aveva una tempra forte: per questo non morì subito e patì per quelle due settimane. Aveva capito subito che per lui c’era poco da fare, si spense poco a poco come una candela. In cascina si occupava lui di tutto e così fu una mazzata terribile per tutti noi. Anche io dopo pochi anni dovetti abbandonare gli studi e mettermi a lavorare. Mia mamma non si riprese più: lei si occupava dei figli e della casa e mio papà era la roccia a cui si appoggiava.
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L’arcivescovo durante i funerali ricordò che aveva perdonato ai suoi assassini...
Fu una omelia bellissima anche se io non la ricordo molto bene: in quei momenti ero frastornato come si può bene immaginare. Ma è vero che mio papà aveva una fede forte e anche a noi ragazzi aveva cercato di trasmetterne i valori. La domenica andavamo tutti alla Messa e poi ci tramandava insegnamenti come l’importanza dello studio. Quando andai a trovarlo in ospedale, pochi giorni prima che morisse, mi accolse con un sorriso e con un rimbrotto affettuoso. «Cosa fai qui? Perché non sei andato a scuola?». E poi quando parlava di chi aveva piazzato la bomba diceva sempre che doveva essere stato un pazzo. «Una persona sana – ripeteva – non può avere concepito una cosa così».
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I chili di tritolo che provocarono la strage. Una seconda bomba, inesplosa, viene trovata in piazza della Scala
Sono passati cinquanta anni da quei giorni...
E un colpevole non è stato ancora trovato, almeno nelle aule giudiziarie. E questo ci dà molta amarezza. Abbiamo seguito tutti i processi Milano, Catanzaro e poi a Roma la Cassazione. Ma nulla: temo che se l’assassino o gli assassini non si pentiranno e non si faranno avanti, la passeranno liscia. Il Comune di Abbiategrasso, però, in occasione del quarantennale della strage, ha fatto posare una statua dedicata al nostro papà. È in piedi nell’atto del seminare come faceva ogni autunno.