domenica 13 ottobre 2024
Molta ottima teoria, ma l'integrazione è ancora lontana. Le associazioni che hanno animato la Giornata nazionale sanno che la strada è ancora lunga. E per questo si impegnano a sensibilizzare
Un'immagine del video proposto da CoorDown "Pensa che io posso, così forse potrò"

Un'immagine del video proposto da CoorDown "Pensa che io posso, così forse potrò"

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Parlano ancora di inclusione sociale e di lotta alla discriminazione i messaggi della Giornata nazionale delle persone con sindrome di Down (#gnpd2024 l’hashtag sui social network) che ricorreva domenica 13, come ogni seconda domenica di ottobre. Associazione italiana persone Down (Aipd), con le sue 52 sezioni sparse per l’Italia, e CoorDown, che riunisce 52 associazioni nel nostro Paese, sono state presenti come sempre nelle piazze e in altri luoghi di aggregazione sociale (sagrati delle chiese, supermercati, ecc.) per far conoscere le loro attività in favore di bambini, giovani e adulti con sindrome di Down e delle loro famiglie, e per raccogliere fondi per sostenere i progetti di sviluppo e inclusione, anche grazie alla vendita di tavolette di cioccolato del commercio equo e solidale.

Se la condizione genetica della sindrome di Down, con i suoi 47 cromosomi, è ovviamente immodificabile, quello che occorre cambiare – rilevano da tempo le associazioni – è l’atteggiamento della società nei confronti delle persone con sindrome di Down. Il miglioramento delle cure mediche ha allungato in maniera significativa la vita delle persone con la sindrome (oggi l’80% di loro raggiunge i 55 anni e il 10% i 70, con tendenza a crescere), ma ci sono ancora molti stereotipi da vincere. Infatti spesso l’accoglienza nel percorso scolastico è più formale che sostanziale: troppa la carenza di insegnanti di sostegno specializzati, ed è stato riformato nel 2023 il contestato decreto interministeriale 182/2020, che prevedeva la possibilità di esonero degli alunni con disabilità dallo studio di alcune materie, che aveva fatto nascere il Comitato #noesonero.

Entrare nel mondo del lavoro comporta ancora tanta fatica per le persone con sindrome di Down nonostante la presenza di una legge specifica (68/1999) sul collocamento mirato: da una recente indagine di CoorDown emerge che solo il 17,3% dei maggiorenni con sindrome di Down svolge un’attività lavorativa. Il messaggio che diffonde CoorDown riprende la campagna lanciata a marzo in occasione della Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down: “Pensa che io posso, così forse potrò”. Nello spot – interpretato dall’attrice canadese, con sindrome di Down, Madison Tevlin – appaiono diverse situazioni in cui la mancata fiducia nei confronti della giovane donna le impediscano di crescere: bere un cocktail (le viene offerta un’aranciata), andare a vivere da sola (viene coccolata dai genitori), fare uno sport come la boxe (non viene allenata con convinzione) o studiare i versi di Shakespeare (le vengono proposti testi elementari).

Viceversa, messa alla prova, la ragazza si mostra capace di misurarsi con le esperienze della vita adulta. Puntualizza Martina Fuga, presidente di CoorDown: «Dare fiducia, alzare le aspettative e offrire opportunità concrete di cambiamento alle persone con sindrome di Down in ogni ambito della vita significa aprire nuove strade, creare possibilità e ribaltare gli stereotipi. Significa rispondere alle loro esigenze e desideri e sostenerli affinché si realizzino pienamente nelle loro vite». Anche lo spot di Aipd, realizzato dal duo comico Le Coliche con Aldo (interpretato da Andrea Moriconi, giovane con la sindrome di Down), vuole smentire la narrazione comune che vede le persone con sindrome di Down come sempre socievoli e allegre: Aldo invece è di cattivo carattere, scontroso, e invece di presenziare ai banchetti in piazza con i volontari di Aipd annuncia che preferisce dormire e andare a vedere la Roma allo stadio. «Chi ha la sindrome di Down, o qualsiasi altra disabilità, non è santo, né martire, né eroe – sottolinea Gianfranco Salbini, presidente di Aipd nazionale –. Eppure, le cronache ci parlano di queste persone per lo più quando compiono qualcosa di drammatico, o di straordinario. Noi, che come famiglie e come associazione viviamo ogni giorno accanto a loro, sappiamo quanto sia difficile superare questa immagine e veder riconosciuto il loro diritto a essere semplicemente ciò che sono».

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