Nicola Mancino - Ansa
«Mario Draghi avrebbe le caratteristiche migliori per diventare presidente della Repubblica, ma per farlo dovrebbe lasciare il governo e... Addio Italia. Sarebbe un disastro». Parola di Nicola Mancino. Era il 1999, e nel Ppi si faceva il suo nome - da presidente del Senato - per l’indicazione a capo dello Stato. «Avevo esponenti di vari partiti che mi assicuravano il voto, persino nel Pci e nel Msi. Poi Franco Marini, che forse coltivava qualche aspirazione in proprio, propose Rosa Jervolino, che infatti mi chiama sempre scherzosamente 'presidente mancato'. Ma va benissimo se alla fine è stato eletto Carlo Azeglio Ciampi, che ha fatto tanto bene all’Italia. A lui sono rimasto legato fino alla fine da profonda amicizia».
Proprio Ciampi, nel 1993, da presidente del Consiglio, in una fase in cui gli ex leader della Dc cadevano uno dopo l’altro come birilli, travolti dalle inchieste, l’aveva voluto al suo fianco, al Viminale. Il suo nome viene ancora oggi evocato per la legge anti-discriminazioni, di quel periodo. Finché, più di recente, anche Mancino non è finito sotto accusa, con l’infamante sospetto di aver trattato con la mafia, e si è ritrovato, per paradosso, a esser difeso, con l’intento di oltraggiarlo, proprio dal boss dei boss che, da ministro, aveva contribuito ad arrestare. Un «nemico numero uno della mafia», Mancino, nella definizione di Totò Riina, in un’intercettazione ambientale di un colloquio in carcere col detenuto pugliese Alberto Lorusso, nell’agosto 2013, che gli offrì, senza volerlo, la più poderosa delle memorie difensive, abbinandolo a don Ciotti nel suo disprezzo più assoluto, e ricordando che con lui al Viminale «oltre 7mila detenuti vennero portati nelle supercarceri dell’Asinara e di Pianosa».
«Le accuse sono poi cadute 'per inesistenza del fatto'», ricorda a 90 anni appena compiuti, nel suo buen ritiro di Montefalcione, suo paese natale, con il piglio dell’avvocato prestato per una vita intera alla po-litica, dopo quasi una decina di anni di grande sofferenza, prima che a essere prosciolti siano stati anche gli alti ufficiali dell’Arma Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno: «Feci sciogliere 54 consigli comunali per mafia», ricorda ancora, Mancino. Si definisce vittima di un «teorema», ora del tutto caduto, dentro una sorta di presunzione di colpevolezza («la presidenza del Senato mi aveva escluso anche dalle cerimonie ufficiali»), ma ottenuta la rivincita non ha mai pensato di far causa di risarcimento allo Stato: «Per un uomo delle istituzioni come me sarebbe stato come farla a me stesso. Si sbaglia, e anche lo Stato può sbagliare».
Partiamo proprio da Ciampi...
Era il meglio che si potesse ipotizzare per la presidenza della Repubblica, in quel momento difficile, ed è stato pienamente all’altezza delle attese. Lo sostenni convintamente, nessun rimpianto, ci siamo visti tante volte anche dopo, giocavamo a burraco insieme. Una volta, a casa di Carlo De Benedetti, c’era anche Mario Draghi.
I parallelismi fra i due sono tanti. Entrambi ex Bankitalia, entrambi chiamati, in nome del loro prestigio, a soccorrere una politica in difficoltà, guidando il governo. E ora la candidatura di Draghi al Quirinale viene considerata da molti "naturale".
Sul piano del prestigio personale le analogie ci sono. Entrambi grandi economisti, ma anche grandi politici, Draghi poi anche in Europa è stato e viene tuttora considerato come un’assoluta eccellenza. Mattarella nell’incaricarlo ha fatto ricorso alla sua esperienza in un momento molto difficile. Ma sono le situazioni che sono diverse. Ciampi aveva già concluso la sua esperienza a Palazzo Chigi, invece qui il Paese ha ancora bisogno di Draghi alla guida del governo. La stessa Europa conta su di lui, essendo stato apprezzato, per come ha operato alla guida della Bce, più di quanto riusciamo a immaginare.
Tifoso di Draghi, al pari di Ciampi, insomma.
Non si tratta di essere tifosi, sebbene io stimi particolarmente Draghi, e sia anche un po’ orgoglioso delle sue origini per metà irpine, essendo sua madre, farmacista, di Monteverde. Ma ho a cuore le sorti dell’Italia, in una fase di grande debolezza della politica. Di tutti i partiti, non escludo nemmeno il Pd, nonostante la stima che mi lega da lungo tempo all’attuale segretario.
Giorgetti pensa che Draghi possa fare bene al Paese anche guidando le operazioni dal Quirinale, in una sorta di presidenzialismo di fatto.
Quest’ipotesi non sta in piedi. O fai il presidente del Consiglio o fai il presidente della Repubblica, tutt’e due non è possibile.
Ma se Draghi dovesse restare dov’è bisognerà fare i conti con l’indisponibilità di Mattarella alla riconferma, più volte manifestata e argomentata.
Diciamo che nell’estrema difficoltà in cui siamo abbiamo la fortuna che il Paese sia retto da due assolute eccellenze.
Meglio non muovere niente, lei dice. Mattarella potrebbe accettare una sorta di "prorogatio'", a tempo?
Non parlo di prorogatio, ma di un’elezione piena. Per come ha fatto il Presidente della Repubblica una rielezione ci starebbe, nell’interesse del Paese.
Ma la sua contrarietà è conclamata e motivata.
Una posizione da rispettare, espressa in piena convinzione e con grande sincerità. E tuttavia, se la partita diventa Draghi o Mattarella, io dico: meglio Mattarella. Con Draghi al Quirinale si va dritti al voto anticipato, con conseguenze disastrose. Con la sua personalità, con la politica che ha saputo interpretare, ha reso un servizio eccellente all’Italia e all’Europa. Ma non è a Draghi ora che si può chiedere di assumere un’iniziativa.
E a chi tocca?
Tocca alle forze politiche, e occorre farlo al più presto.
E Mattarella che fa?
Non intendo condizionare nessuno, men che meno persone della statura di Draghi e Mattarella. Sono lontano dalla politica attiva da 10 anni, esprimo solo un parere, se posso, in nome della mia lunga militanza nelle istituzioni. Se ricorreranno le condizioni - e lo vedremo presto -, Mattarella, a mio avviso, non potrà non pensarci, nell’interesse del Paese che ha sempre messo in cima a ogni altra cosa. Lo dico con grande rispetto, ma se, per quello che ha rappresentato e rappresenta oggi nella considerazione generale, la scelta dovesse di nuovo cadere su di lui, sarà difficile sottrarsi. È accaduto lo stesso anche a Napolitano.