lunedì 24 febbraio 2014
REPORTAGE / Un quartiere della metropoli in rapida e difficile trasformazione che non rinuncia a cercare le soluzioni migliori. di Claudio Monici
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Dove finisce la strada, una grande rotonda sopraelevata giace solitaria. Nel sottostante antro c’è un’altra strada, mai solcata da pneumatico, che termina tronca a ridosso di una montagna di terra. Doveva essere il prolungamento della Paullese, tra la Tangenziale e l’ingresso del quartiere pronto a lanciarsi nel futuro di questo millennio, e trasformarsi in "Città ideale" , di prestigio e pregio. Ma del superbo avvenire non rimane che un nome, quello della strada che finisce quasi saltando nel vuoto su campi incolti e forse non proprio salubri: viale del Futurismo.Quella solitaria rotonda rimasta a metà traguardo dal suo completamento urbanistico, idealizza il centro nevralgico della avveniristica "Milano Santa Giulia-Montecity", sognata in "zona 4 ", a sud-est della città, fra Rogoredo e Morsenchio.Una visione di grandi progetti residenziali, e molto altro ancora, per riqualificare le aree industriali dismesse, dove sorgevano lo stabilimento Montedison e le acciaierie Redaelli.Forse bastava fare una visita alla Galleria nazionale delle Marche, in quel di Urbino, per orizzontarsi di fronte al dubbio su come realizzare la "Città ideale", e soffermarsi davanti a quel celebre dipinto anonimo, forse di Piero della Francesca, realizzato più di cinquecento anni fa, per dare impulso alla voglia di un futuro ma che sia a misura d’uomo.Qui, lungo il viale del Futurismo, è ancora un altro pezzo di quella Milano "moderna" edificata applicando il concetto del parallelepipedo, palazzi a "muro di Berlino" che si affacciano l’uno sull’altro, dove scorrono le vite di 1500 famiglie , all’incirca. Dovevano essere molte di più, ma ancora tanti appartamenti restano vuoti e ferma è la macchina per il completamento del progetto avveniristico, per via di quei terreni dell’area Montecity poco "puliti", per un malandato, poco chiaro risanamento ambientale. Anche se nelle ultime settimane un accordo tra la proprietà e le istituzioni ha ridato fiato alle speranze.C’era una volta "una distesa verde di prati e marcite, un fitto reticolato d’alti argini alberati lungo fossati irrigui, vanto dei Monaci Cistercensi, lo scorrere tranquillo di chiare acque gorgoglianti... Sereno paesaggio della Bassa milanese. Qua e là lo punteggiavano il bianco delle mura delle "bergamine" (stalle dei bovini, ndr), ed il rosso mattone delle grandi cascine, centro di lavoro e di semplice vita agreste, millenaria vocazione agricola rimasta tale fino alla fine del XIX secolo".Bisogna chiudere gli occhi è lasciare agio a queste parole che sono l’introduzione dell’opuscolo parrocchiale sulla vita di Rogoredo, per immaginarsi com’era questo luogo fatto di cortili e porticati, aie, e ballatoi di legno, fienili, prima di della rivoluzione industriale e della successiva rielaborazione urbanistica dei palazzi a specchio, come è la luccicante sede del canale tv "Sky".Quella "frazione qualunque", anonima, pochi chilometri dopo Porta Romana, sulla via consolare che porta a sud, legata all’abbazia di Chiaravalle, al ritmo dei monaci, allo scandire delle ore e alla bonifica agricola delle paludi, è da un pezzo che non esiste più, anche se il suo nucleo di case operaie che si sviluppò all’inizio del 1900 attorno alla chiesa parrocchiale e alla Acciaieria Redaelli è ancora la vera Rogoredo.«Sta cambiando tutto, ma è ancora tradizione sentire qualcuno della comunità che ti saluta e dice "vado giù a Milano". Qui ci conosciamo ancora tutti. È un po’ come stare nel passato, con accanto il futuro. Due mondi che si incontrano - osserva don Marco Eusebio, parroco della parrocchia Sacra famiglia in Rogoredo -. Ancora all’inizio di questo millennio, potevamo contarci all’incirca in 7mila residenti, oggi, con la Nuova Rogoredo, all’anagrafe siamo salti a 11.500. Un incremento, al ribasso dell’età: sono in aumento i battesimi, mentre diminuiscono i funerali. Segno che la popolazione è giovane. E pensare che ci sono ancora parecchie case sfitte, e il progetto urbanistico è fermo».Nodo nevralgico, per via della stazione ferroviaria Milano-Rogoredo, ma in quest altra periferia del "boom edilizio" dei giorni nostri, scarseggiano servizi e attività commerciali, con grande disagio e disappunto di chi ci è venuto a vivere attratto dalle promesse. Nei piani di partenza, era tutto previsto: attività commerciali, auditorium, si parlava anche di uno stadio, dove ospitare anche concerti di musica rock, e di una Città della giustizia. Si parlava. Come quando attorno al 1900 del secolo scorso si pensava di creare una serie di canali fluviali di collegamento con il fiume Po a Cremona, da qui il nome della cava di Porto di Mare. Di acqua non ne manca qui, soprattutto dopo che è stata chiusa l’acciaieria. Eredità delle marcite dei Monaci cirstercensi. «La falda oggi è risalita, dopo anni di spremitura a opera della ferriera. In certi punti l’acqua la si può trovare anche tre metri di profondità – racconta il signor Celio Bonù, 86 anni, dal 1948 residente a Rogoredo –. Tanto che ci sono dei palazzi, edificati in questi anni recenti, con i box a tre livelli sotto la strada, dove invece che le auto ci stanno i pesciolini».Languono, invece, le belle testimonianze di Rogoredo. Cascina Palma o la Palazzina dei chimici della ex Redaelli, che ancora cercano di sopravvivere alle ingiurie del tempo e dell’uomo, sono storia che andrebbe salvaguardata, e riproposta in veste nuova, invece che attendere il loro definitivo atto di morte e sulle loro ceneri "coltivare" ancora parallelepipedi di cemento. Edifici che magari restano vuoti, in quelle periferie che così rischiano di trasformarsi in orbite vuote, quando la Grande città non sa "respirare" oltre i margini delle Mura spagnole.
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