Alle 21 di domenica la nave Ocean Viking ha puntato lo scafo verso Nord e richiesto formalmente il place of safety, il porto di approdo sicuro alle autorità marittime italiane e maltesi per poter disimbarcare le persone soccorse in Europa. Va ricordato che era già stato rifiutato il porto di Tripoli, che stando alle convenzioni internazionali non è ritenuto un porto sicuro, né la Libia un Paese in cui i diritti umani vengono garantiti.
Fleur è il nome di fantasia che si è scelta per raccontare i suoi quattro anni di atrocità tra Marocco, Algeria e Libia. E in effetti la sua ultima traversata nel Mediterraneo centrale, risolta venerdì con il salvataggio da parte della nave Ocean Viking, sembra un fiore, di speranza, il primo forse che ha raccolto nei suoi 22 anni di vita.
Va precisato che tra le 104 persone soccorse dalla nave di Medici senza frontiere e Sos Mediterranee 47 provengono dalla Costa d'Avorio, 36 dal Mali, 12 dal Bangladesh, 3 dal Camerun, 2 dalla Guinea Conacry, 2 dalla Nigeria e una dalla Niger e un'altra Sudan. 40 sono i minorenni. Mentre le donne sono 10: 9 di loro hanno viaggiato senza mariti, né familiari come Fleur: "Fa impressionante il numero - dice una delle ostetriche sulla Ocean Viking - di donne sole, ed è nuovo rispetto alle nostre precedenti missioni. A bordo ci sono anche delle sorelle che hanno viaggiato sole: una delle due ha raccontato di aver lasciato la sua casa, con il permesso della madre, perché obbligata dallo zio a sposarsi con un uomo più anziano che aveva appena perso la moglie. Con lei la madre ha mandato anche la sorella più piccola di soli 10 anni, perché aveva paura che potesse capitarle lo stesso".
Non serve vedere gli occhi pieni di lacrime di Fleur per immaginare che questi "viaggi", che poi sono anni di vita spesi per raggiungere l'Europa, se sei una donna significhino sofferenze indicibili. "Casa mia non esiste più": inizia così Fleur, spiegando che il suo villaggio di origine è stato distrutto a causa conflitto armato che imperversa nel Nord Ovest del suo Paese di origine, poi ci sono state le traversie tra Marocco e Algeria, i soldi rubati, i soprusi, le violenze, e la paura del mare.
Il primo gommone su cui, assieme a sua zia e suo cugino, ha sognato l'Europa partiva da Oran, sulla costa algerina: "Eravamo in 80 tutti schiacciati". Ma vengono intercettati dalla Guardia costiera algerina che li riporta a terra e li arresta. "Riceviamo un foglio di via, dobbiamo lasciare il Paese, finiamo a Zabratha in Libia", e anche lì tocca loro un destino analogo: "La polizia ci arresta senza alcun valido motivo" racconta ancora la ragazza. La conseguenza è la prigione di Griade in Libia che appare come il periodo peggiore: le violenze subite e quelle perpetrate anche sugli altri detenuti, soprattutto subsahariani, sono faticose da digerire, da raccontare: "Gli uomini venivano infilati in dei buchi nel pavimento, legati, lasciati senza cibo né acqua e picchiati a ripetizione".
Non va meglio per Fleur a Tajoura, altro centro di detenzione in Libia dove la ragazza fa capire che molte delle donne vengono violentate, sfruttate e fatte prostituire; ma il fatto che la corruzione dilaghi tra i carcerieri libici permette ai tre di cavarsela ancora una volta, pagando 4.500 euro.
A quel punto vengono mandati sulla spiaggia di Zuwara, pagando 2mila euro a testa: "Ci sono tre gommoni in mare e tutti vogliono salirci - racconta Fleur -. La zia e mio cugino salgono sul primo, io resto indietro e mi costringono su un altro gommone: era sovraffollato, appena messo in mare, il fondo non regge ed esplode sotto i nostri piedi. Restano a galla solo i tubolari, cui riesco ad aggrapparmi e mi salvo solo perché indossavo il giubbetto di salvataggio".
Viene, quindi, deportata nella prigione di Djanzour dove le arriva la notizia da pochi altri sopravvissuti che la zia e il cugino sono morti nel naufragio del primo gommone partito quella stessa notte da Zawara. Ma non c'è tempo per il lutto dei suoi affetti più cari: uno dei carcerieri le offre un presunto lavoro come domestica a casa di sua madre, senza pagarla mai. Passano i mesi prima che Fleur trovi una via di fuga, aiutata da altri amici subsahriani che però vogliono tentare la via del mare. Lei è spaventata, resta a Tripoli. Tutti gli amici muoiono tra le onde: ancora una volta, giovedì sera si ritrova sola su un gommone con altre 103 sconosciuti sulla spiaggia di Al Khoms.
Ma il terrore di Fleur si trasforma in speranza quando in lontananza vede una nave enorme, di colore rosso: "Non sono i libici", è la Ocean Viking a restituirle quella speranza, di cui finora era stata privata.
Dopo il soccorso e le cure mediche, il cibo e l'acqua, affiorano i primi sorrisi. Sono soprattutto i bambini a lasciare da parte timori e paure: arriva persino il momento del gioco. Le carte, i disegni, e qualche calcio al pallone, prima di imparare a costruire aeroplanini di carta; no, non barche. L'ingranaggio organizzativo della Ocean Viking procede senza intoppi: la distribuzione del cibo è ordinata e nel corso della mattinata vengono lavati tutti i vestiti delle persone soccorse. Il ponte diventa una distesa di panni gocciolanti, ma nessuno se ne cura troppo, fino a quando sulla linea dell'orizzonte si vede la sagoma di un'imbarcazione grande. La Ocean Viking si trova nella Sar di competenza della cosiddetta Guardia costiera libica: una motovedetta libica avanza sulla rotta della nave di Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranee. Sono circa le 15.30 e dal ponte di comando viene dato l'allarme di mettere al sicuro le persone soccorse all'interno dei container. I piccoli che per tutta la mattinata erano stati fuori a giocare e correre lungo il deck, mentre uomini e donne tiravano un sospiro di sollievo tra partite a scacchi e letture in francese, sembrano sorpresi alla richiesta di stare di nuovo rinchiusi. Ma il disagio durerà soltanto una ventina di minuti: il tempo di vedere che la nave militare dei libici giri lo scafo e lasci alla Ocean Viking la libertà di proseguire nel pattugliamento e alle persone soccorse di muoversi liberamente sul ponte della nave.