Il sermone che accompagna la preghiera del venerdì nelle moschee dev’essere pronunciato in italiano, in modo che sia possibile controllare che «non ci sia alcun tipo di predicazione e istigazione all’odio, durante un momento che deve essere soltanto di tipo religioso». La proposta lanciata qualche settimana fa dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha raccolto molti consensi e qualche imam si è premurato di dire che questo già avviene in decine di luoghi di preghiera. Dopo qualche giorno, come spesso avviene in Italia, il tema sembra essere già tornato nel dimenticatoio, mentre continua a infuriare la polemica sulle moschee che si vorrebbero costruire in varie città. Il vero nodo da sciogliere – al di là della questione linguistica già di per sé rilevante – è la preparazione del personale religioso che guida le comunità musulmane, quasi sempre sprovvisto della necessaria formazione teologica e della conoscenza degli elementi culturali e giuridici che fondano la nostra società. Carenze non da poco per chi svolge un ruolo che non è soltanto spirituale ma che ha grande rilevanza nell’indirizzare idee e scelte dei fedeli. «Dobbiamo ammetterlo, abbiamo gente di basso livello – denuncia Asfa Mahmoud, architetto giordano, presidente della Casa della cultura islamica di Milano, dove al venerdì si radunano in quattromila per la preghiera –. Troppi gli imam autoproclamati, che non hanno i numeri per guidare una comunità e spiegare il Corano tenendo conto del Paese in cui si vive, nel rispetto delle sue leggi e delle sue consuetudini, favorendo i processi d’integrazione e sconfessando chi vuole la separazione in nome dell’identità. C’è un’ignoranza diffusa che dev’essere superata con una formazione adeguata». Che fare? E chi dovrebbe prendere l’iniziativa? Il marocchino Abdellah Redouane, segretario del Centro islamico d’Italia dove ha sede la Grande Moschea di Roma, un’idea ce l’ha: un master per imam, incardinato presso un ateneo italiano. Il curriculum di studi dovrebbe comprendere teologia islamica, storia della civiltà islamica, mistica, diritto costituzionale italiano, diritto privato, storia dell’Europa, diritti umani, dialogo interreligioso. Potrebbero accedervi persone che, oltre a una sufficiente padronanza dell’italiano, possiedono già i fondamenti del sapere islamico. «Non si può ammettere gente che parte da zero, altrimenti ci vorrebbero 15 anni di studio. Ci vorrà un esame di ammissione per selezionare le domande: non possiamo sdoganare l’ignoranza in nome della fede e dobbiamo offrire garanzie di serietà anche a quella parte di opinione pubblica che guarda con diffidenza a tutto ciò che si muove all’interno delle moschee». Secondo Souad Sbai, ex presidente della federazione delle comunità marocchine in Italia e deputata del Pdl, «la diffidenza ha le sue buone ragioni, se consideriamo quello che varie inchieste giudiziarie hanno portato alla luce. Sono troppi gli imam fai-date, troppe le moschee in cui,anziché educare alla convivenza, si predica la separazione o l’odio per chi non è musulmano. Da troppo tempo la questione non è più soltanto religiosa, ci sono aspetti legati alla sicurezza. Lo Stato ha il diritto e il dovere di sapere con chi ha a che fare. La massima trasparenza su quanto viene detto durante il sermone del venerdì e sulla preparazione di chi guida la preghiera è utile alle istituzioni ed è un bene per i tantissimi fedeli che troppo spesso ricevono un insegnamento che strumentalizza il sentimento religioso a scopi politici». Sia la Sbai sia Redouane propongono di rilanciare il ruolo della Consulta per l’islam italiano (istituita nel 2005 dall’allora ministro dell’Interno Pisanu) come luogo di confronto da cui potrebbe uscire una proposta per istituire corsi di formazione superiore per guide spirituali islamiche, che andrebbe poi messa a punto da un gruppo di accademici ed esperti. In più la Sbai propone l’istituzione di un albo a cui dovrebbe obbligatoriamente essere iscritto chi vuole esercitare la funzione di imam. «L’albo dev’essere una condizione vincolante per evitare la moltiplicazione degli pseudo-imam», concorda Yahya Pallavicini, segretario generale della Coreis, che vorrebbe affidarne la gestione al ministero dell’Interno e localmente alle prefetture, «in attesa che prenda forma una rappresentanza condivisa e riconosciuta dell’islam italiano, purificato da ingerenze di Paesi stranieri». Secondo Pallavicini anche i corsi di formazione devono essere promossi dallo Stato italiano, «con il contributo di organizzazioni islamiche credibili e affidabili. E devono puntare alla formazione di personale che possa fornire assistenza spirituale non solo nelle moschee ma anche in ospedali, carceri, cimiteri, dove c’è una domanda di tipo religioso che chiede risposte religiose». La Coreis ha già promosso autonomamente iniziative di formazione da cui in questi anni sono uscite decine di imam. Tutti rigorosamente italiani, e che per ora si rivolgono a un ristretto universo di fedeli anch’essi italiani. La partita più importante si gioca però all’interno delle comunità straniere, dove è in atto da tempo una guerra sotterranea – e che ogni tanto fa sentire i suoi clamori anche in superficie – per un’egemonia che è insieme religiosa, sociale e politica. L’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii), che si vanta di controllare la stragrande maggioranza delle moschee (735 nel 2007) censite dal ministero dell’Interno, è oggetto di contestazioni sia al suo interno sia da altre associazioni musulmane. La Consulta per l’islam italiano – dove si sono a lungo confrontate e spesso aspramente combattute le diverse anime del mondo musulmano e che aveva contribuito alla stesura della Carta dei valori, primo segnale dell’accettazione dei principi che stanno a fondamento della nostra società – è stata sostanzialmente ibernata (o piuttosto, come si moromora, definitivamente sepolta?) dall’attuale titolare del Viminale, Roberto Maroni. Che finora si è impegnato sul versante del controllo e della repressione delle derive fondamentaliste e terroristiche, piuttosto che sulle misure per favorire l’integrazione. D’altra parte (vedere box) i tempi non sembrano ancora maturi per giungere a una rappresentanza unitaria e condivisa dell’islam d’Italia, capace di dare vita a iniziative forti come la promozione di un’«alta formazione» per le guide del culto. Chi si muoverà per primo? Con quali credenziali? Con quale seguito? Da questa «palude italica » bisogna uscire al più presto, promuovendo iniziative che garantiscano la libertà religiosa, una preparazione teologica e culturale adeguata e in armonia con le leggi di questo Paese, nel rispetto assoluto dei principi che fondano la convivenza civile. Altrimenti il rischio è che nella palude nascano insidiose sabbie mobili, in cui crescono sentimenti di estraneità e ostilità. E allora sarebbe peggio per tutti. Musulmani in preghiera nella Grande Moschea di Roma. Costruita dai Paesi arabi nel 1995, è la più grande d’Europa. Secondo una rilevazione del Viminale, nel 2007 erano 735 i luoghi di culto islamici in Italia