martedì 20 novembre 2018
Per il presidente della Pontificia Accademia per la vita è azzardato «affidare a una norma giuridica la soluzione delle grandi domande sulla vita e sulla morte»
Monsignor Paglia: affermare diritto a morire con dignità
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Si deve «affermare il diritto» a «morire con dignità», come anche quello di «vivere con dignità», ma morire con dignità non vuol dire «anticipare la morte», chiarisce monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita (Pav) e gran cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, in occasione del Graduation day dei master universitari di I e II livello in Cure palliative e terapie del dolore dell’Università Cattolica.

Nella lectio tenuta questo pomeriggio presso la Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs, Paglia sostiene che «forse una legge è necessaria, ma non sull’eutanasia» perché è azzardato «affidare a una norma giuridica la soluzione delle grandi domande sulla vita e sulla morte». Il presidente della Pav auspica piuttosto una «riflessione ampia». «Si può legiferare sulle questioni relative al fine vita – dice - ma per favorire quella alleanza terapeutica che vede il malato, il medico e i famigliari riuniti per giungere ad una decisione condivisa». Altrimenti si rischia di abbandonare «nell’indifferenza e nella crudeltà» chi ha bisogno di sostegno e aiuto. Così, nel richiamare un messaggio di Papa Francesco alla Pav – «Il compito della medicina è curare sempre, anche se non sempre si può guarire» - Paglia sottolinea che il morente «ha bisogno della vicinanza dell’uomo in salute per sentirsi» “parte dei viventi”. «Prendersi cura» con amore, delicatezza e rispetto della persona senza mai «essere complici della morte», il suo monito . Un accompagnamento a «vivere umanamente anche la morte».

«Mai – scandisce l’arcivescovo – faremo il lavoro della morte» come «fosse un atto d’amore». «Nessuno vorrebbe morire da solo». Per questo, continua, «stringere la mano di chi sta morendo è tra le più urgenti e profonde pratiche umane da riprendere». L’eutanasia, «presentata come una scelta di civiltà, perché risponderebbe alla domanda di una morte degna» in realtà «incoraggia un’insidiosa perversione dei significati», e la sua richiesta di legittimazione «toglie giustificazione alla cura di un malato inguaribile, per aprire la strada alla liquidazione di una vita disprezzabile». Non usa giri di parole il presidente della Pav nel definire la legalizzazione della "dolce morte" «l’effetto di una soggezione tecnica ed economica all’idea della selezione eugenetica della vita degna di cura». Paglia sottolinea la contraddizione di una società che «da una parte allunga tecnicamente la vita e dall’altra ne favorisce politicamente la soppressione».

Singolare, secondo il relatore, «il silenzio assordante sul diritto a essere curati e accompagnati». In una società dove «l’autosufficienza è un imperativo indiscusso – spiega – è facile per chi resta dipendente sentirsi depresso e persino non all’altezza di vivere». In questo orizzonte, il passaggio dal «diritto» di morire al «dovere» di morire «diviene più breve di quel che talora si crede». Eppure, assicura il presidente della Pav, «la domanda di eutanasia o suicidio assistito è nella quasi totalità dei casi figlia dell’abbandono
terapeutico (e sociale) del malato».

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