La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel cortile di Palazzo Chigi - FOTOGRAMMA
Il caso redditometro è chiuso. Nel giro di 48 ore, al termine di un faccia a faccia anche aspro col “suo” viceministro dell’Economia Maurizio Leo (autore del “gran pasticcio”), Giorgia Meloni torna a... Giuseppe Conte. Ovvero allo status quo prima del decreto ministeriale che l’altroieri aveva fatto partire questa bizzarra vicenda di governo sugli accertamenti fatti in base allo stile di vita e alle spese degli italiani (usate dal Fisco per calcolare il reddito presunto, resi “dormienti” dal 2018 per decisione del governo Conte M5s-Lega.
La presidente del Consiglio ha imposto la marcia indietro con un colpo di scena: un secco video di circa 70 secondi, pubblicato alle 7 di sera a integrazione di un primo intervento social fatto ieri mattina. Una doppia presenza che testimonia più di tante parole quanto il caso fosse diventato urticante per la leader di Fdi, timorosa che la norma potesse tramutarsi in un boomerang a quasi due settimane dal voto. «Il nostro obiettivo è e rimane quello di contrastare la grande evasione e il fenomeno inaccettabile, ad esempio, di chi si finge nullatenente ma gira con il Suv, o va in vacanza con lo yacht, senza però per questo vessare con norme invasive le persone comuni», ha scandito Meloni annunciando la sospensione del provvedimento pubblicato appena lunedì (ma firmato il 7 maggio) sulla Gazzetta Ufficiale, in attesa di quelli che definisce «ulteriori approfondimenti». Ma alla Lega, che con Forza Italia aveva subito fatto scattare le proteste martedì, il rinvio non basta: «Non è sufficiente, è necessaria la completa abolizione», hanno affermato i 4 deputati della Lega che si erano affrettati a presentare un ordine del giorno, approvato, per il superamento del redditometro.
Si è chiuso così un vero e proprio terremoto politico che ha scosso la maggioranza. Determinata a correre ai ripari. Già di mattina, come detto, da Palazzo Chigi partiva il primo segnale: mai il «Grande fratello fiscale», aveva detto, preannunciando che lei stessa avrebbe chiesto «delle modifiche, se necessario». Per tutta la giornata a Montecitorio non si è parlato d’altro. Maurizio Leo si è affacciato velocemente, attento a non farsi intercettare. Poi va a Palazzo Chigi per il confronto finale, che alimenta le critiche delle opposizioni. Una «figuraccia», ha detto per il Pd il responsabile economico Antonio Misiani, chiedendo le dimissioni non solo di Leo ma anche del ministro Giancarlo Giorgetti, entrambi «platealmente smentiti» dalla premier. E per Francesco Boccia siamo «in una repubblica delle banane, è il timbro al fallimento del Mef». Mentre Iv, con la senatrice Daniela Sbrollini, contesta la ricostruzione fatta: «Un governo incapace mente affermando che il redditometro fu voluto dal governo Renzi nel 2015. Falso. È una misura del 2010, governo Berlusconi. Nel 2015 Renzi tolse il parametro delle medie Istat che il governo Meloni voleva reintrodurre, Insomma, continue bugie».
A chiedere a gran voce di fermare le nuove regole, nonostante i paletti introdotti «a garanzia» dei contribuenti come rivendicato da Fdi, sono stati gli alleati di governo. La Lega di Salvini (il cui odg era stato sottoscritto intanto anche dai renziani di Iv), ma pure Antonio Tajani che per Fi puntava dritto all’«abolizione» ed è stato il primo a dirsi soddisfatto perché «Meloni ha accolto la nostra proposta di bloccare il redditometro». Mentre Matteo Salvini ha comunque applaudito la scelta del governo di «stoppare» il tutto.
Nel Transatlantico di Montecitorio, affollato per il voto di fiducia sul Superbonus, è stato un continuo scambio tra i parlamentari, tra battute sulla vicenda, preoccupazioni per l'impatto sulla campagna elettorale e dubbi su come uscirne. Il paradosso è che ora servirà un nuovo decreto ministeriale, che dovrà firmare sempre Leo, per sospendere la nuova versione di uno strumento che, in ogni caso, è «sempre stato residuale», ha precisato nel frattempo il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, spiegando che viene «utilizzato dall’amministrazione finanziaria quando non ha alcun elemento per ricostruire il reddito di un contribuente, come nel caso degli evasori totali che non hanno presentato la dichiarazione, non hanno redditi, ma dimostrano di avere una significativa capacità di spesa».
Ma il decreto, ha ammesso Meloni, «ha creato polemiche», pure se era un atto dovuto per mettere «un limite al potere discrezionale dell’amministrazione finanziaria di contestare incongruenze tra il tenore di vita e il reddito dichiarato». Quindi per ora si ferma tutto. Nelle more, fanno sapere dal governo, di una «revisione dell’istituto». Di cui si parlerà, con ogni probabilità, dopo le Europee.