Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il presidente della Fondazione Roberto Ruffilli Pierangelo Schiera (Ansa)
Se la sua voce non fosse stata brutalmente zittita dalla furia del terrorismo, o se fosse stata ascoltata almeno dopo, in risposta all'intento anti-riformatore dei suoi assassini, forse oggi il nostro Paese non si troverebbe in questo stallo così drammatico, inadeguato alle sfide urgenti di questi tempi difficili. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è recato a Forlì in occasione del 30° anniversario della morte del senatore Roberto Ruffilli ucciso dalle Brigate Rosse il 16 aprile 1988. Al suo arrivo, il capo dello Stato ha deposto una corona di fiori ai piedi della lapide che ricorda l'agguato terroristico in cui perse la vita il docente e politico dc. Ha quindi visitato la sede della Fondazione a lui intitolata, ubicata proprio in quella che era l’abitazione dove cadde vittima di una vera e propria esecuzione da parte di una delle ultime schegge del terrorismo politico, in una fase che andava già incontro, con la caduta del Muro di Berlino, l’anno successivo, alla perdita del principale riferimento dell’eversione di sinistra.
I terroristi Stefano Minguzzi e Franco Grilli, che poi saranno catturati e assicurati alla giustizia, entrarono in casa travestiti da postini, suonarono alla porta con la scusa di recapitargli un pacco e, una volta entrati, lo condussero nel soggiorno, dove lo fecero inginocchiare per poi ucciderlo con tre colpi di pistola alla nuca. «Rimane sconcertante il contrasto tra l'efferatezza belluina dei terroristi e quella figura serena, aperta agli altri, disponibile», ha notato Mattarella.
Una formazione solidamente cattolica, la sua, maturata in città come allievo dai salesiani – rimasto presto orfano di padre – all’oratorio “san Luigi”, e poi consolidatasi a Milano presso il collegio Augustinianum dell’Università Cattolica, Ruffilli – attento studioso delle dottrine politiche – decise, una volta diventato senatore, di dedicarsi interamente alle riforme di cui il sistema già allora mostrava di aver grande bisogno, e lo fece, dapprima, da consigliere del segretario della Dc, appena eletto, Ciriaco De Mita, e poi da capogruppo della Dc nella Commissione Bozzi. Che arrivò molto vicino al risultato avvalendosi proprio della “visione” di Ruffilli, volta a coniugare pluralismo e governabilità, con un vincolo di coalizione da stabilire attraverso convergenze programmatiche prima del voto.
Una “medicina” su misura delle patologie che il nostro sistema mostra oggi in modo ancora più eclatante, ma Mattarella in queste ore decisive per la sorte di una legislatura nata già claudicante ha evitato riferimenti diretti all’attualità, anche se ha mostrato pieno apprezzamento per la relazione di Massimo Cacciari che lo aveva preceduto. Il quale ha criticato aspramente l’immagine falsata di popolo che si è fatta strada negli anni, una sorta di ideologia della Rete che tende a rendere tutti uguali, mentre – ha notato il filosofo – lo spirito di Ruffilli era volto a valorizzare le diversità, le “parti”, per esaltare un’idea di con-partecipazione al bene pubblico o di «comunità», come dice Mattarella ripetendo un’immagine a lui cara.
In precedenza, il presidente della fondazione Ruffilli Pierangelo Schiera aveva ricordato dei momenti cruciali dell’impegno del politico forlivese, come quando rispose a una telefonata dell’allora capogruppo della Dc al Senato che gli proponeva la commissione Istruzione, con un garbato quanto deciso rifiuto. Perché – si giustificò – sentiva di dover dare il suo contributo in altro campo, quello delle riforme, un impegno che avrebbe pagato con la vita. Dieci anni dopo Moro la stessa sorte crudele toccò quindi a un altro grande riformista che si muoveva nello stesso solco politico e culturale, come ha ricordato Mattarella, ringraziando anche il sindaco Davide Drei, e la studentessa Martina Derosa, che ha davvero colpito tutti per il trasporto verso una figura che non ha fatto in tempo a conoscere da vicino. Il capo dello Stato ne ricorda la «trasparenza», la «grande, elegante ironia», il suo mettere al centro la persona e i corpi intermedi, sintetizzato bene dal libro scritto a quattro mani con il costituzionalista Piero Alberto Capotosti: “Il cittadino come arbitro”. «Anche da questo derivava la sua sottolineatura del valore del pluralismo della nostra democrazia».